quadro di balbo a san pietro di san carlo da sezze

Gli anni a Carpineto R.

Fonte: www.sancarlodasezze.it

San Carlo da Sezze a Carpineto Romano

Prima di trattare l’argomento, penso di fare cosa grata ai lettori far conoscere, sommariamente, la figura di questo straordinario santo francescano. San Carlo nacque a Sezze il 20 Ottobre 1620 da genitori piissimi, che si occuparono di dare al figliolo un’educazione profondamente cristiana. Per motivi di salute fu costretto a lasciare le scuole elementari e a fare il contadino e il pastorello. A 17 anni fece voto di castità perpetua e poi, contro la volontà dei parenti che lo volevano sacerdote, preferì la condizione di fratello laico dell’Ordine dei Frati Minori. Vestì il santo abito nel convento di Nazzano, professando la Regola il 19 Maggio 1635. Venne mandato di famiglia nei conventi di Morlupo, Ponticelli, Palestrina, Piglio, Carpineto Romano, dove rimase dal Maggio del 1642 al Marzo del 1646.Dimorò poi nei conventi romani di San Pietro in Montorio e San Francesco a Ripa; compiendo gli uffici di cuoco, sagrestano e questuante.

Nell’Ottobre del 1648, mentre ascoltava la Messa nella chiesa di San Giuseppe a Capo le Case, nel momento dell’elevazione, un raggio si partì dall’Ostia che andò a ferire san Carlo nel cuore.

Si distinse per l’umiltà, l’ubbidienza e la preghiera. Ciò che sorprende di più è che questo fratello laico, quasi analfabeta, abbia potuto

scrivere libri di alta ascetica. Papi, cardinali, vescovi, sacerdoti, si giovarono dell’opera di fra Carlo, che aveva ricevuto da Dio doni Straordinari, come l’estasi, la contemplazione, il dono del consiglio e della scienza infusa. Alla morte, avvenuta a San Francesco a Ripa, il 6 Gennaio 1670, comparve sul petto una singolare stimmata, che fu riconosciuta di origine straordinaria. Venne canonizzato da papa Giovanni XXIII nel 1959.

La fonte più importante per conoscere la vita di san Carlo da Sezze è l’Autobiografia, che reca il titolo assai significativo di « Le grandezze della Misericordia di Dio in un’anima aiutata dalla grazia divina ». Quasi un giornale dell’anima, dove san Carlo analizza il suo cammino di cristiano, di religioso e di mistico. Ho attinto quasi esclusivamente a questa fonte nell’edizione critica del padre Raimondo Sbardella, permettendomi qualche cambiamento nel testo per renderlo più leggibile.

Il 2 Maggio 1642, fra Carlo dal convento di Piglio si diresse a Carpineto Romano,dove era stato destinato di famiglia. Lo accompagnavano due sacerdoti. Arrivato al Castellaccio, nei pressi di Colleferro, fu protagonista di una brutta avventura. Ma lasciamo raccontare lui stesso: « Giunto a metà strada, mi imbattei in un branco di pecore guardate dal pastore. I due padri, che erano con me, si trovavano molto più avanti. Mi si avventarono contro quattro o cinque cani mastini, che mi circondarono abbaiando furiosamente, e con le bocche spalancate sembravano che volessero divorarmi. Ritrovandomi solo e senza bastone, ricorsi all’aiuto del Signore. Presi a difendermi col crocifisso che portavo al collo, mettendolo ora davanti a uno ora davanti all’altro dei cani. Così facendo invocavo il nome potente di Gesù. Alla fine i cani repressero il loro furore e si allontanarono, lasciandomi libero».

Il Castellaccio: luogo dove dimorò il santo in viaggio verso Carpineto

Il commento che fra Carlo fa sull’episodio è un piccolo capolavoro di psicologia, non privo di ironia. Scrive infatti: « Restai meravigliato non tanto dei cani, che essendo animali irragionevoli e feroci, non facevano altro che il loro dovere, difendere gli armenti dalle fiere e dai ladri, ma del pastore. Vedendo ciò che accadeva, non si era mosso, rimanendo seduto sotto la sua paraventa non preoccupandosi di richiamare i cani. Questo comportamento, mi sembrò molto duro. Non avrei mai pensato che in un uomo ragionevole ci potesse essere tanta crudeltà, che potendo soccorrere il fratello, non lo fece ».

Non manca fra Carlo di fare una tiratina d’orecchi ai suoi due confratelli sacerdoti che lo avevano lasciato solo: « Non è bene che i religiosi che fanno il cammino assieme vadano distaccati l’uno dall’altro, senza potersi vedere; si potrebbe smarrire la strada e oltre tutto non si dà una buona edificazione ai secolari. Come è diverso se ci vedono procedere assieme, con la corona in mano e la mente elevata in Dio, mentre recitiamo le preghiere ». Non so se fra Carlo, mentre scriveva questo giudizio, pensava alla bella terzina di Dante:

« Taciti, soli e senza compagnia n’andavam, l’un dinanzi e l’altro dopo, come i frati minori vanno per via » (Inf. XXIII, 1-3).

La predica del buon esempio che tanto l’aveva colpito, quando era ancora secolare a Sezze:

« Camminavo lungo la strada romana, quando incontrai un religioso tutto raccolto, con la mente elevata in Dio. Mi lasciò un desiderio grande di poter anch’io giungere a una così grande perfezione. La figura di quel religioso mi è rimasta sempre impressa nella mente ».

Arrivato al convento di San Pietro Apostolo di Carpineto, fra Carlo dovette sopportare una prova ben più dolorosa di quella dei cani del Castellaccio. Non era arrivato ancora il nuovo padre Guardiano e comandava la comunità il padre Vicario, un tipo buono ma sospettoso, che prendeva facilmente fischi per fiaschi e oltre tutto, come donna Prassede, di manzoniana memoria, credeva che il Signore gli avesse fatto dono di raddrizzare le teste dei confratelli che non la pensavano come lui. « I poveri religiosi, scrive fra Carlo vivevano tutti con l’arco ben tirato, di malavoglia, sopportando per amore di Dio, scusando il padre Vicario per la sua poca esperienza sperando che il padre Guardiano giungesse presto ». Se la pren­deva soprattutto con i giovani studenti e i fratelli laici, ai quali non risparmiava rimproveri e punizioni. Però il bersaglio preferito fu il nostro Santo, da quando l’aveva visto incamera di un chierico ammalato e pensò che i due congiurassero contro di lui, scrivendo una lettera al padre Provinciale.

Permettendolo il Signore, iniziò una vera persecuzione spietata e umiliante. Ogni mattina, inginocchiato in mezzo al refettorio, era costretto a subire rimproveri e a ricevere penitenze, per qualsiasi futile motivo o sbadataggine involontaria. Fra Carlo chiama questo supplemento di colazione mattutina con una frase molto espressiva:«il lungo penitenziare ». L’umiliazione più grande, che lo feriva nell’intimo della coscienza, era il fatto che il suo persecutore era anche il suo confessore. Non per scelta di fra Carlo, ma perché così volevano le consuetudini. Significativo questo sfogo del Santo: « Lo stesso rigore lo usava pure nella confessione, dove si ha qualche refrigerio e apertura di cuore ».

« II lungo penitenziare »

Fra Carlo si sforzava di essere il più tranquillo possibile: pensava alle sofferenze di Gesù in croce e si raccomandava continuamente alla Madonna. Quando il tempo glielo permetteva, andava all’orto e, sentendosi libero, come sollevato di cuore, cantava il Magnificat.

Una mattina però, durante il solito « lungo penitenziare », non ne poté più e fu preso da un forte impeto di ribellione: « Sentivo l’impulso di alzarmi, di andargli addosso e prenderlo a pugni. Lo avrei fatto, se il Signore non mi fosse venuto incontro con la sua santa grazia, trattenendomi da quel furioso impulso diabolico ».

Si fece il segno della croce e la. tentazione scomparve, ritornando la calma nel suo animo. Ma questo segnarsi così devoto di fra Carlo fu interpretato male dal padre Vicario, quasi avesse voluto prenderlo in giro. Si arrabbiò di più, gridando che non era un demonio da scacciare con il segno della croce, ma un religioso di san Francesco. Peggio si accese di collera, quando fra Carlo si alzò e andò a gettarsi ai suoi piedi per baciarli. Per fortuna poi venne il nuovo padre Guardiano e la pace ritornò in convento. Il padre Vicario, quando seppe dal padre Provinciale che fra Carlo non aveva scritto nessuna lettera contro di lui, chiese perdono e d’allora stimò molto la santità dell’umile fratello di Sezze.

San Carlo dopo alcuni mesi che si trovava a Carpineto, fu colpito da broncopolmonite e dovette essere ricoverato nell’infermeria di San Francesco a Ripa. Ne uscì guarito grazie alla protezione del beato Salvatore da Horta, che gli apparve:

« Era di statura più alta che mediocre, di aspetto venerando, con l’abito rappezzato, tutto allegro e giocondo, circondato di luce. Mi parlava più con lo sguardo che con le parole ».

La lunga malattia e altre circostanze fecero capire a fra Carlo che non era fatto per andare missionario, come ardentemente aveva desiderato e chiesto ai superiori: « Non dovevo andare a morire martire in missione, ma dovevo abbracciare il martirio della santa ubbidienza ».

Un martirio lungo che avrebbe portato il nostro santo, attraverso prove dolorose, ad assimilarsi a Gesù Crocifisso.

Il Signore non risparmia i suoi santi; anzi più li ha vicino a sé e più richiede da loro sacrifici. Così operando li associa alla sua passione e contribuiscono alla salvezza del mondo.

Fra Carlo si era appena rimesso dalla lunga e snervante febbre che aveva debilitato il suo fisico, quando fu colpito da un’altra febbre ben più subdola e dolorosa, perché di natura morale. Una violentissima tentazione contro la purezza lo tormentò per diversi giorni senza dargli tregua.

Pregava, mortificava il suo corpo con digiuno, penitenza, discipline, con un duro cilicio stretto sulla nuda carne. Ma commenta: « Tutti questi sforzi valevano poco, perché pensare di scacciare la tentazione a forza di braccia è vanità e pazzia. Essa si vince solo con una grazia speciale del Signore. Solo la infinita pietà del Signore mi liberò da quella tentazione ».

Il diavolo, ci avverte San Pietro, è come un leone che si aggira attorno a noi, pronto ad attaccarci e divorarci. Vista l’inutilità di far cadere san Carlo nel peccato dell’impurità, il maligno pensò di indurlo allo scoraggiamento e alla disperazione. Il capitolo VI del secondo libro dell’Autobiografia ci descrive con realismo e vivezza d’immagine l’epica lotta di fra Carlo con il diavolo, dove la sofferenza inaudita, quasi irreale, si mescola a situazioni e ricordi che coinvolgono persone e luoghi.

Tutto iniziò una notte, « una tremendissima notte », la definisce san Carlo. Alla mente annebbiata dal dormiveglia si presentò netta e viva l’immagine lasciva di una donna, che fra Carlo cercò di scacciare, senza riuscirvi. Poi il dubbio atroce (la vera sofferenza dell’anima delicata) di avervi acconsentito e di essere in peccato mortale.

Con questa confusione nella coscienza corse subito in chiesa e si mise a pregare nella cappella di San Francesco: « Nel meglio della preghiera, scrive fra Carlo, mi vedo comparire davanti, in una nuvola, l’immagine del Salvatore, con il volto turbato e minaccioso. Mostrava grandissimo sdegno e dava segni di riprensione, come se fosse stato gravemente offeso da me. Non parlava con la bocca, ma con lo sguardo spiegava e dava ad intendere il suo pensiero. Dopo poco sparì, comunicandomi nell’interno una oscurità grande, che mi riempì di indicibile tristezza, come se fossi immerso in una densissima e tenebrosa nebbia di mestizia

Fra Carlo andò a confessarsi, ma non rivelò, per umiltà, la visione avuta. Il confes­sore, benché dotto e santo religioso, non capì bene la vera natura della tentazione, aumentando così la confusione e l’angoscia nel povero fra Carlo: « Mi sentivo nel colmo della disperazione. Senza saper altro mi chiusi in camera, mettendomi inconsolabil­mente a piangere la mia sciagura e la mia miseria ».

Il diavolo approfittò di questo stato confusionale per portare il santo alla disperazione, insinuando l’idea che ormai era dannato, senza alcuna possibilità di salvezza. Quando faceva qualcosa, sentiva nell’interno come una voce che gli sussurrava: « Non occorre che ti affatichi a far del bene, tanto sei dannato ».

È la prova più terribile che possa provare un’anima. Una tentazione che solo pochi santi hanno sperimentato. La vera notte dello spirito dove regna solo il buio tenebroso, senza alcuna consolazione o aiuto celeste. Dio sembra non esserci, come se non esi­stesse. Scrive san Carlo: « Mi sentivo sepolto come in un inferno di dannati, senza consolazione alcuna, vivendo solo di mestizia e di pianto ».

La cosa più sconvolgente e al tempo stesso ammirabile era che la tempesta avveniva solo nel profondo dell’anima, perché in superficie, a livello fisico, tutto appariva calmo. Fra Carlo non aveva smesso di pregare, di esercitarsi come il solito nella carità, di essere allegro e gentile con tutti. Arrivò a rivolgere al Signore questa preghiera, tanto sofferta ma tanto sublime nella sua fede: « Signore, anche se tu mi mandassi un angelo a leggermi la sentenza che io sono condannato all’inferno, seguiterò sempre ad amarti e servirti. Però tu dammi la forza di poterlo fare ».

L’inganno così bene architettato dal diavolo svanì quando fra Carlo rivelò tutto a un buon confessore, capitato a Carpineto, che gli lasciò questo consiglio: « Per l’avvenire devi fare delle tentazioni la stessa stima che fa un elefante di una mosca ».

Nel 1642 sorse nella Provincia Romana un movimento spirituale con lo scopo di istituire conventi di ritiro per quei religiosi che desideravano condurre una vita più rigorosa. Veniva chiamato comunemente « la Rifornzella ». Giunto a Carpineto il Visitatore Generale, padre Francesco da Secli, chiese a fra Carlo se voleva partecipare a quel movimento. Il santo, che personalmente non approvava tali innovazioni, perché non necessarie, rispose che si rimetteva all’ubbidienza. Data questa sua disposizione fu mandato nel convento di ritiro di Castel Gandolfo. Per l’indiscrezione delle penitenze e la confusione di qualche testa calda, la Riformella dopo qualche mese fallì. Fra Carlo poté tornare a Carpineto. Con questo ritorno nel convento di San Pietro inizia il secondo periodo della permanenza di san Carlo a Carpineto. Nei primi quindici mesi aveva fatto una vita ritirata, « senza brighe di secolari, facendomi poco uscire dal convento », come dice lui stesso. Il secondo periodo invece fu per fra Carlo molto movimentato, a causa soprattutto di un’epidemia che infierì in paese dal Maggio all’Agosto del 1645.

Dalla narrazione che ne fa il santo e dalle cronache del tempo non sembra che si trattasse di una vera peste, piuttosto di un’epidemia del tipo, per esempio, della Spagnola del 1918. Sembra poi che colpisse solo Carpineto, mietendo molte vittime. Sentiamo come ce la descrive san Carlo: « Vi fu in detta terra una influenza di aria molto pestifera, che cagionò a quella povera gente una grande infermità e molti vi morirono. Veduto il pericolo in cui si trovavano, quegli abitanti ricorsero ai frati per aiuto spirituale, essendo mancati i parroci e i vice parroci.

Il padre Guardiano, che era un uomo pieno di carità, mosso a pietà mandò quattro religiosi, e anche altri se occorrevano. Tra gli altri fui scelto pure io. Essendo quest’influenza come di male contagioso. subito dopo che la persona era caduta am­malata di febbre, gli si dava i sacramenti e in breve moriva. Tutto ciò procurava un

grandissimo terrore e spavento, e ogni giorno morivano dalle dieci alle quindici persone. Non si vedeva altro per le strade che portare i santissimi sacramenti ai poveri infermi e caricare morti nelle chiese. In ogni contrada si udivano voci di pianto, piangendo ognuno chi il padre chi la madre; e i padri e le madri piangevano i loro figli. Suonavano le campane delle chiese, e sentendole affliggevan fino all’anima e rendevano il terrore maggiore del male stesso, specialmente agli infermi ».

Per questo motivo fra Carlo si recò dal Vicario e ottenne il permesso che non si suonassero più le campane. Se la cosa poté calmare un poco gli animi, diede al paese l’immagine di un paese spettrale. Continua il racconto di fra Carlo: « seguitai a fare questa carità ogni giorno per tutti e tre i mesi che durò questa mortalità. Il Signore mi diede spirito e forza per resistere e non cadere ammalato per la grande puzza che si sentiva nei luoghi dove giacevano quei poveretti infermi. Non avevano essi, a causa della povertà, quelle comodità che si richiedono in simili infermità. I frati del convento, che cordialmente mi amavano, mi esortavano a riguardarmi, dubitando che vi lasciassi la vita. Sarebbe stato per me un grande favore morire per amore del Signore, in aiuto del nostro prossimo ».

Andando per le case a visitare e curare gli ammalati, fra Carlo si rese conto che molti morivano più che per la malattia, per mancanza di cibo. Presentò il caso al padre Guardiano, che prese a cuore l’affare, ordinando di distribuire ai poveri tutto il grano che annualmente i frati ricevevano gratis dal Comune di Carpineto. Era però necessario avere il permesso scritto dall’ufficiale addetto all’annona.

Fra Carlo andò a casa di quello e lo trovò a letto, in fin di vita, che non parlava più. Pregò allora il Signore perché lo aiutasse, poi pieno di fiducia si accostò al moribondo. Lo chiamò per nome, esortandolo per amore di Gesù a firmare la richiesta di grano. L’infermo, che era disteso sul letto agonizzando, sentendo il nome dolcissimo di Gesù, tra lo stupore di tutti si alzò e cominciò a parlare. Disse che gli portassero l’occorrente perché voleva fare tutto quello che fra Carlo desiderava. Dopo aver firmato, si raccomandò alle preghiere del Santo, affinché il Signore lo assistesse in quell’ultima ora. Poi si mise di nuovo a giacere nel letto come stava prima, e subito dopo morì.

In un’altra circostanza fra Carlo riuscì a riportare la serenità nell’animo di un giovane disperato: «Assistevo una notte un moribondo, un giovane ancora nel fiore degli anni, raccomandandogli l’anima. Era circa la mezzanotte, quando quello tutto agitato si pose a sedere sul letto e mi rivolse queste parole: “Se uno per tutto il tempo di sua vita avesse offeso Dio, troverebbe misericordia?”. Sentendolo così parlare, compresi che il diavolo lo stava tentando di disperazione, risposi che Dio benedetto nella Sacra Scrittura ci ricorda che egli perdona il peccatore che si pente di cuore. Avrebbe perdonato anche a Giuda se glielo avesse chiesto, come perdonò a san Cipriano che era stato mago e incantatore, a santa Maria Maddalena e santa Maria Egiziaca, che erano state pub­bliche meretrici. “Perciò, confida pure tu in Dio, egli perdonerà i tuoi peccati, perché egli è venuto in questo nostro mondo per patire e morire per noi” . Rispose il giovane: “Se così è, voglio anch’io sperare nella infinita misericordia di Dio, affinché perdoni i miei peccati” . Detto questo, si accomodò nel letto, e poco dopo spirò serenamente nel Signore ».

Era trascorso il mese di Giugno e parte di quello di Luglio, ma l’epidemia non diminuiva, anzi sembrava peggiorare. Fra Carlo allora con quella fede e semplicità che hanno i santi si raccomandò a sant’Anna e al beato Salvatore da Horta, di cui era devotissimo:

«Avevo affisso nella nostra chiesa di San Pietro, in un pilastro,le immagini di sant’Anna e del beato Salvatore. Le donne del paese, che fino allora avevano nessuna cognizione della devozione verso sant’Anna, incominciarono a ricorrere a lei. Soprattutto una certa Antonia Canali, una donna molto devota e benefattrice dei frati, sposata da diciotto anni, senza figli. Io la esortai ad avere fiducia in sant’Anna, che presto avrebbe avuto un figlio. Infatti partorì una bella bambina ».

Questo episodio contribuì molto ad accendere la devozione verso la Madre della Madonna. Erano molte le donne di Carpineto che andavano ad inginocchiarsi davanti all’immagine fatta appendere da san Carlo. Alcune di esse decisero di far dipingere un quadro e di esporlo il giorno della sua festa, sperando così che sant’Anna liberasse il pae­se dall’epidemia. Col permesso dei superiori, fra Carlo si occupò del quadro e delle altre cose necessarie per la festa. Il 25 Luglio, festa di San Giacomo Apostolo, ritornò da Roma il terziario del convento con il quadro e diverse immaginette di sant’Anna, e con l’indulto apostolico che concedeva l’indulgenza plenaria da impartirsi il giorno della festa.

L’esposizione del nuovo quadro acquistò il carattere di una grande solennità. Furono avvertiti i parroci perché facessero conoscere alla popolazione la concessione dell’indulgenza plenaria.

Fra Carlo si recò dal capitano dei soldati, il signor Angelo Senica, perché si degnasse di onorare la festa di sant’Anna, mandando gli archibugieri e i tamburini a sparare e suonare al momento della solenne esposizione della sacra immagine. Ecco come fra Carlo racconta il fatto rimasto indimenticabile nella storia di Carpineto:

« Si accomodò l’altare nella cappella della Madonna, dove si doveva riporre la sacra immagine e cantarvi la messa al mattino della sua festa. Preparai con padre Giovanni da Roma una grande quantità di cartelli posti in cima ad una canna, dove erano scritti i nomi di Gesù, Maria, sant’Anna e del beato Salvatore. In un altro più grande c’era l’immagine di sant’Anna con le sette Madonne di san Luca. Questi cartelli dovevano essere portati in processione dai fanciulli. Si fecero dei fuochi d’artificio e altre cose per solennizzare la festa. Tutti si davano da fare, ognuno secondo le proprie capacità e possibilità. Vennero anche religiosi dai conventi vicini. Al primo suono delle campane del Vespro si era radunata già molta gente. Il cielo era sereno, senza che si prevedesse segno alcuno di pioggia. Ma all’improvviso venne un temporale “terribilissimo” di pioggia e di tuoni, che causò un grandissimo spavento, e tutti credevano che per quel giorno non si potesse fare nessuna funzione.

Nostro Signore, che è potente nelle sue opere e vuole che siano onorati i suoi santi, disfece in un momento quella tempesta e il cielo ritornò sereno come prima. Poi uscì la processione; l’ebdomadario rivestito con il piviale, i cantori con le cotte, e tutti gli altri. Due sacerdoti presero il quadro della gloriosa sant’Anna, che era stato posto sull’altare della Madonna. I cantori intonarono “Ave Maris stella”. Si entrò nel chiostro del convento, dove erano radunati molti fanciulli, che tenevano alti cartelli e gridavano: “Viva sant’Anna! Viva sant’Anna! “.

Quando la processione arrivò sulla porta del convento, davanti al piazzale gli archibugieri incominciarono a sparare e i tamburi a rullare. Spari e rulli si confondevano con il suono di tutte le campane del paese e le grida della folla. Tutte cose che rallegravano i cuori mesti della povera gente, sbigottita per il timore del male. L’immagine della santa venne rivoltata verso il paese, tenendola ferma per qualche minuto, mentre la folla inginocchiata con gran compunzione e lacrime, implorava la liberazione dall’epidemia.

Da quanto mi fu riferito, nel momento che si svolgeva questa funzione gran parte degli infermi si alzarono dal letto e cominciarono a ricuperare la sanità, e il male scomparve per intercessione di questa gran santa. Il mattino della festa si cantò la messa e ci fu la comunione generale.

Il padre Pellegrino da Lucca, Vicario del convento, tenne la predica in lode della gloriosa sant’Anna, madre della Madre di Dio ».

Dopo la liberazione della mortalità, ottenuta per intercessione di sant’Anna, fra Carlo passa a parlare di quell’altra devozione introdotta a Carpineto: quella di san Salvatore da Horta, uno dei santi più singolari e straordinari dell’Ordine dei Frati Minori. Umile fratello laico spagnolo aveva ricevuto dal Signore il dono di fare miracoli a getto continuo, in una maniera impressionante. I superiori erano costretti a farlo cambiare continuamente di convento in convento, per l’invadenza della gente che accorreva da tutte le parti della Spagna. Alla fine decisero di mandarlo in Italia, a Cagliari. Qui si ripeterono le stesse scene d’entusiasmo e d’isterismo incontrollato della gente che accorreva da fra Salvatore per avere la grazia della guarigione. Morì nel 1567.

Fra Carlo, come abbiamo già, ricordato, aveva una grande devozione a questo santo, di cui si sforzava di imitare le virtù. Il padre Guardiano di Carpineto, visto l’entusiasmo dei Carpinetani verso sant’Anna, chiese a fra Carlo di far dipingere il quadro di san Salvatore. Doveva però trovare un benefattore, perché il convento non aveva denaro sufficiente. Fra Carlo andò in chiesa e si mise a pregare davanti all’immagine in carta del Santo che aveva appeso ad un pilastro: « O beato Salvatore, fratello, se volete il quadro, aiutatemi, perché io possa fare. Questa gente è povera, però trovate voi il modo ».

Qualche giorno dopo cadde ammalato il figlio unico del capitano Porta. Il padre Guar­diano comandò a fra Carlo di andarlo a visitare. Il Santo, prima di uscire dal convento, andò in chiesa davanti all’immagine del beato Salvatore, e prostrato a terra lo pregò così:

« O beato Salvatore, adesso è il tempo, se volete il quadro ».

Senza aggiungere altro, si alzò e andò in casa di quell’ammalato. Vedendolo il padre, la madre, gli altri fratelli, lo scongiurarono affinché pregasse il Signore per la guarigione di Carluccio, così si chiamava il giovane. Fra Carlo allora li esortò a raccomandarsi a san Salvatore, con la promessa che gli avrebbero fatto il quadro, se il loro caro guariva. Poi prese la reliquia del Santo, la immerse nell’acqua, facendo il segno della croce. Diede da bere l’acqua all’ammalato assieme a tre ciambelline da mangiare. Il giovane mangiò e bevve e immediatamente la febbre sparì. Non mancò il signor Porta di adempiere la promessa fatta, e il quadro di san Salvatore fu esposto nella chiesa di san Pietro alla venerazione di tutti.

San Carlo descrive poi un altro fatto prodigioso avvenuto per intercessione della Madonna, tanto bello per la sua audacia e semplicità:

« Si ammalò gravemente una vedova, che era solita darmi l’olio per la lampada della Madonna. I paesani la chiamavano la maestra, perché insegnava alle ragazze ed era molto buona, devotissima di San Francesco.

La donna si ridusse a tal punto, che le vennero amministratigli ultimi sacramenti e si aspettava solo che morisse. Avevano già fatto preparare la cera per il mortorio. Sentendo ciò, incominciai a riflettere tra me che, se quella donna moriva, non ci sarebbe stato in paese chi avesse fatto la carità dell’olio. Pieno di fervore andai in chiesa a pregare davanti all’altare della Madonna. Senza pensare alla mia poca umiltà e presunzione, prostrato a terra, pregai così: “O Madonna santissima, se questa vecchiarella muore, non ci sarà più nessuno che porterà l’olio. Se vuoi che si accenda la tua lampada, bisogna guarirla”. La donna guarì, e la cera che doveva servire per la sua sepoltura fu data ai frati per la chiesa ». Il morbo che tante vittime aveva fatto a Carpineto ebbe uno strascico in convento, dove si ammalarono otto religiosi. Fra Carlo li servi con tanto amore, benché per natura sentisse una forte repulsione, a causa del male contagioso. È l’ultimo ricordo che abbiamo di san Carlo a Carpineto, perché subito dopo fu mandato di famiglia a Roma, nel convento di San Pietro in Montorio.

Attilio Carlo Cadderi

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