stemma templari

Abbazia di Valvisciolo

Dal sito: www.angolohermes.com

L’abbazia di Santo Stefano di Valle Roscina detto Malvisciolo o Valvisciolo, venne dedicata al protomartire Stefano, come altre filiali dell’abbazia di Fossanova. La ragione di questa titolatura la spiega il p. Girolamo da San Roberto nel suo “Itinerario nel monastero di Fossanova”, anch’esso dedicato al santo martire: perché lì vi sostarono per qualche tempo le reliquie del santo, quando dall’Oriente furono traslate a Roma. In memoria di ciò fu eretto in Fossanova un oratorio. Nella fascia dei Lepini orientali sono sorti altri cenobi con identica denominazione: S. Stefano di Marmosolio, a Cisterna di Latina (anche di questa, oggi, non rimangono che pochi ruderi), S. Stefano in Colle Secciae, monastero di monache fuori Sezze, S. Stefano di Valvisciolo sermonetano. In realtà vi sono anche cenobi benedettini con identica denominazione, come ad esempio Santo Stefano ai Monti presso Terracina, cenobio benedettino.

L’abbazia fu istituita da tre fondatori laici: Matteo di Carpineto, “miles”, Matteo di Monterotondo di Norma ed Erasmo di Bassiano, che con atto del 2 agosto 1247 consegnarono il monastero ad Antonio de Campulo, abate di Fossanova, a Paolo di Ripi, abate di Casamari, a Bartolomeo di Roccasecca, abate di Valvisciolo sermonetana, tutti appartenenti all’ordine Cistercense, i quali accettarono in un capitolo tenutosi nell’abbazia di Valvisciolo sermonetana. I tre fondatori laici offrirono beni (tra cui alcune alcune piscine pescatorie: «Questi predetti condonatori promisero ai detti venerabili padri di custodire le piscine pescatorie murate in valle Roscina nel territorio di Carpineto nelle quali scorre l’acqua della Refolta» – Atto di donazione dell’anno 1247) e fondi siti nei tre territori lepini davanti a numerosi popoli del circondario, che vennero qui per lucrare le indulgenze. A loro volta i Padri Cistercensi promisero degli anacoreti in alcuni luoghi di culto sui monti Lepini. Secondo una tradizione non documentata tale fondazione scomparve ben presto ed i monaci cistercensi riunirono e beni e titoli nella abbazia sermonetana di santo Stefano e Pietro di Valvisciolo: «Nel pontificato di Clemente V essendo stati ignominiosamente estinti i Templari tutti, ed abbandonandosi la nostra badia di san Pietro sermonetana, i cistercensi lasciarono la Valle Roscina di Carpineto e se ne vennero ad abitarla unendo e titoli e beni» (Pantanelli).

Intemperie ed incendi, secondo tradizione e testimonianze archeologiche, fecero abbandonare questo luogo. I beni territoriali da Valvisciolo al Casal del Pozzo, secondo l’atto di donazione, vennero posti sotto la commenda dei Caetani di Sermoneta, che proprio nel 1303, con bolla del pontefice Bonifacio VIII ricomprarono legittimamente Sermoneta e divennero padroni di parte delle paludi pontine. La badia carpinetana, posta sulle vie della transumanza, appariva caposaldo e presidio tra i monti ma anche terra di contrasto nelle successive fasi feudali. Infatti venendo meno l’unità politica di queste terre, con Carpineto soggetto ai De Ceccano e poi ai Conti di Segni-Valmontone, diverranno motivo di attrito tra le comunità di Sermoneta e Bassiano (sotto i Caetani) e Sezze, tanto che vi fu una “guerra” intercomunitaria, con morti e feriti e relativo atto di pace, controfirmato da Carpineto e dalle tre comunità che avevano aggredito il feudo carpinetano proprio nel territorio già appartenente alla badia di S. Stefano di Valvisciolo. Comunque nel secolo XVII la comunità di Carpineto rivendicò l’uso civico di queste terre con lo jus pascendi. E venne istituito un quarto delle erbe d’inverno per il pascipascolo carpinetano. Aizzati i pastori bassianesi, che rivendicavano la contrada confinante dei Crapei, furono essi carcerati dai carpinetani, sequestrati e scomunicati. Per tutto il secolo XVIII vi furono forti contrasti per la revisione confinaria, partendo sempre dall’atto di donazione del novembre del 1247.

Oggi dell’antica abbazia rimangono soltanto alcuni ruderi in mezzo alle montagne di Carpineto, presso la sorgente la Fota. Essi si possono raggiungere dopo una lunga e faticosa escursione tra le montagne, meglio se accompagnati da esperti conoscitori della zona. Osservando ciò che rimane dell’antico complesso, si deduce che doveva essere una costruzione molto ampia ed autosufficiente: vi si possono vedere due cisterne per la raccolta dell’acqua, una peschiera ed una fucina (per fabbricare cosa, armi?). I paesani ritengono che tutte le leggende relative ai briganti che terrorizzavano coloro che incautamente si avventuravano troppo oltre sulla montagna, sono originate dalla presenza sul luogo di un drappello di Cavalieri Templari, che sotto le spoglie di umili frati occupavano quel posto e tenevano lontani i curiosi per difendere qualcosa. Che cosa? La tradizione popolare non ha dubbi: un tesoro. Tesoro che molti hanno cercato, invano, tra quelle rovine. Ma al di là delle leggende una cosa è certa: l’abbazia sorge isolata in mezzo alla montagna, difficilmente raggiungibile oggi come ieri, perché poco o nulla è cambiato da allora in quei luoghi, tuttora utilizzati come luogo di pascolo per bestiame in libertà. Perché tanta inaccessibilità? Gli ingredienti per un mistero ci sono tutti: Templari, leggende, simboli presenti nel vicino paese, la migrazione verso un’abbazia omonima, quella di Valvisciolo di Sermoneta, la quale a sua volta è anch’essa ammantata di mistero e carica di simbolismi arcani. La ricerca prosegue…

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