L'ascesa di Gioacchino Pecci al Pontificato
Nasceva in Carpineto Vincenzo Gioacchino Pecci il 2 marzo 1810. Brigantaggio, occupazione, restaurazione fecero da sfondo ad una tranquilla ed agiata giovinezza, ad una brillante vita di studio (Viterbo e Roma), ad una carriera ecclesiastica abbracciata a 27 anni. Da qui una rapida carriera diplomatica che lo porterà nella Delegazione di Benevento (città enclave nel regno borbonico) per raggiungere la più prestigiosa delegazione di Perugia fino alla Nunziatura Apostolica in Belgio (1843). Problemi politici, religiosi, culturali di questa giovane nazione, da poco separatasi dall’Olanda, furono risolti piuttosto brillantemente dal giovane diplomatico, che ebbe a meritarsi sul campo la più prestigiosa delle onorificenze belghe: “le grand cordon de l’ordre de Léopold I”.
Acclamato vescovo di Perugia (1846-1878) sperimentò alcune intuizioni sociali. Accusato ingiustamente per le cosiddette stragi perugine, elevò il tenore culturale e morale dei suoi sacerdoti e iniziò una serie politica assistenziale e sociale. “Insignificante” lo dichiarava il Crispi proprio per questa sua programmata equidistanza dalla politica contingente; il Bonghi ne riconosce invece i meriti:
“Le sue pastorali sono singolarmente schive d’ogni allusione politica. Il dominio temporale non v’è nominato una sola volta; nessuna allusione al Governo Italiano, che l’ha distrutto”.
Camerlengo alla morte di papa Pio IX, sfatò la tradizione con uno dei più brevi conclavi della storia: il 20 febbraio 1878 fu Leone XIII. “Lumen in coelo” lo additava la profezia dello pseudo Malachia, che vide la cometa brillare sul cipresso dei Pecci che ancora si vede nello stemma secentesco in via La Rosa. Un luminoso pontificato.
Doveva essere nelle intenzioni di tutti un papa di passaggio nel preparare ad altro successore una Chiesa normalizzata ed invece fu uno dei più longevi dopo quello di papa Mastai.
Quam felix flore in primo, quam laeta Lepinis
orta iugis patrio sub lare, vita fuit!
Quanto lieta fu nel suo primo fiorire
nella casa paterna la mia vita
scaturita tra le giogaie Lepine!
E’ la voce di papa Leone XIII, melanconica elegia latina, che piange il defunto fratello, cardinal Giuseppe Pecci, evocando la sua infanzia in Carpineto Romano, la sua prodigiosa carriera, l’esaltazione al soglio pontificio.
Qui il 2 marzo 1810 nacque, nell’antica provincia dello Stato Pontificio di Marittima e Campagna, ducato degli Aldobrandini.
Fu il sesto dei 7 figli di Ludovico Pecci ed Anna Prosperi Buzi, proprietari terrieri, già presenti in questa comunità montana nel periodo rinascimentale, dove possedevano una casa “in contrada Porronis” (fine del secolo XV). L’espansione economica dei Pecci favorì l’acquisizione del castello dei Conti (oggi Palazzo Pecci), signori di Carpineto prima dell’avvento degli Aldobrandini; sotto di essi fu ereditaria la carica di colonnello delle truppe baronali.
Durante la parabola napoleonica e la relativa occupazione dello Stato Pontificio, per alcuni mesi, Ludovico Pecci diviene “maire” (sindaco) della comunità, essendo uno dei cittadini più facoltosi la cui fortuna ammontava a 1070 franchi; e nella soppressione degli ordini religiosi dei Padri Francescani (chiamati nel sec. XVII dal card. Pietro Aldobrandini) e dei Padri Agostiniani (già presenti fin dal secolo XIV) i Pecci ne recuperarono parzialmente i beni.
L’esilio di papa Pio VI e papa Pio VII, acuisce una forte spinta all’insorgenza, trasformatasi ben presto in brigantaggio: un periodo storico tormentato durato fino all’anno 1825, che vide i Pecci in balia dei “contumaci” ed il giovane Gioacchino vide con i propri occhi tanti “re nella macchia”: Diciannove, Massaroni, Gasbaroni. Durante l’occupazione napoleonica, al culmine del brigantaggio politico, la famiglia si trasferirà in Roma. Il giovane Pecci andrà studente in un collegio viterbese, per ritornare l’estate a Carpineto.
Non aderì subito alla vita sacerdotale Gioacchino Vincenzo Pecci, ma solo dopo il giubileo dell’anno 1825, promulgato da papa Leone XII, ed in seguito a profondi studi teologici, decise per il si e si rinunciò al riposo estivo sui Lepini perché “il tornare sì innoncuratamente in Carpineto mi saria motivo di dissipamento!”. Ma le sue scelte apparivano sempre più politiche, con passione e propensione per la diplomazia: via obbligatoria, però, l’entrata nell’Accademia dei Nobili Ecclesiastici, presso la Minerva in Roma, e quale corredo genetico, un preciso albero genealogico attestante i suoi natali che il futuro pontefice si affrettò a richiedere alle carte d’archivio, all’araldica, alle nobili famiglie anagnine delle “12 stelle”. Operazione lunga tra Roma, dove egli si trovava, Carpineto ed Anagni, che lo farà esclamare: “Quanto sono solleciti e gelosi di conservare le glorie dei loro antenati i popoli civilizzati della Toscana, tanto neghittosi e poco curanti delle memorie d’uomini forse illustri gl’inselvatichiti abitatori della Campagna!”.
Sciogliendo le ultime riserve, fu ordinato sacerdote nell’anno 1837: prelato domestico di papa Gregorio XVI, relatore alla congregazione del Buon Governo, Delegato Apostolico a Benevento già nel 1838.
“Il Pecci trovò il vetusto e glorioso Ducato di Benevento depresso e senza risorse, non vi erano né commercio, né industrie. Era continuamente percorso da bande di malfattori provenienti in gran parte dal vicino Regno di Napoli e funestato da risse e da furti”.
Oltre contrabbando, malversazioni doganali, corruzione, il giovane Delegato Apostolico affrontò con prudenza e tempestività la sotterranea azione diplomatica del ministro di polizia napoletano Del Carretto, mirante all’annessione al Regno di Napoli del ducato beneventano: il Trattato di Vienna, articolo segreto n.12, ne permetteva un’annessione al Regno delle Due Sicilie contro un’indennità territoriale più contigua allo Stato Pontificio. L’accorta politica del Pecci, tendente alla conservazione dell’antico ducato beneventano gli valse il trasferimento nella più prestigiosa Delegazione Apostolica di Perugia (luglio 1841).
Il giovane prelato, “mite, dinamico, fine” destò subito grandi simpatie tra i perugini (1841-1843), ma già nell’aprile del 1843 era Nunzio Apostolico di Sua Santità Gregorio XVI in Belgio, nazione costituitasi in regno dopo l’avvenuto distacco dall’Olanda. Frutto di accordi della diplomazia europea nel Congresso di Londra, il giovane Stato era al centro dell’attenzione generale, mentre la Chiesa belga si proponeva a modello delle Chiese europee, anticipando più chiari rapporti tra potere temporale e spirituale, conosciuto come la formula “libera Chiesa in libero Stato” (un programma che il Pecci, in qualche modo, farà suo); così anche alcune intuizioni sul mondo operaio belga che andranno ad illuminare la questione sociale leoniana.
“Nei tre anni che trascorse a Bruxelles, con il buon senso a lui proprio e il magnetismo, infallibile che esercitava nei rapporti sociali, riuscì a muoversi abilmente con energia e prudenza nei confronti e dell’episcopato e del governo, senza prestare troppa attenzione alle accuse che venivano rivolte alla sua apparente mancanza d’autorità”.
Un clima difficile, come si evince dal rapporto epistolario e diplomatico intercorso con il card. Lambruschini, Segretario di Stato: troverete nel clero e nei vescovi disposizioni poco favorevoli”. In realtà esistevano forti tensioni tra Stato e Chiesa, tra liberali e cattolici, tra università cattoliche e clero, il tutto fomentato dall’onnipresente Metternich, la cui politica tendeva anche al richiamo del Pecci in Roma. E mentre il nostro nunzio sospirava i suoi lontani Lepini, per tema che l’influenza del Metternich gli nuocesse ulteriormente, venne richiamato in Roma.
“Mi conforta il pensiero che nella volontà del Santo Padre riconosco il volere di Dio, e figlio obbediente della Chiesa, mi sottopongo ossequioso nell’infinita sua misericordia”.
Una resa onorevole con il conferimento del “Gran Cordon de l’Ordre de Leopold I”, la più alta onorificenza belga, ed un breve soggiorno a Parigi e Londra dove trionfava il capitalismo sullo sfruttamento della classe operaia, per giungere poi, vescovo, nella sede di Perugia, punto fondamentale della sua carriera prima di salire al soglio pontificio.
Un compito da vescovo, religioso e non politico, per cui la sua opera doveva rivolgersi alla formazione dell’uomo, in un umanesimo integrale, con una Chiesa non più considerata ostile al progresso, alla cultura, alla libertà.
Superò con avvedutezza le prime avvisaglie di cambiamento politico nella Repubblica Romana del 1848; ospitò anche per 3 giorni nel suo palazzo arcivescovile l’osannato profeta del neoguelfismo, Vincenzo Gioberti, conosciuto in Belgio.
Equilibrio, fermezza, stile, fedeltà a Roma, pur se alcuni atteggiamenti ci fanno credere che corresse una qualche ostilità con il cardinale Antonelli, nativo di Sonnino e Segretario di Stato di papa Pio IX.
Comunque molti studiosi hanno visto negli atti del suo lungo episcopato in Perugia (1846-1878) la genesi del futuro pensiero leoniano e di tanti documenti pontifici.
Un programma con notevoli linee culturali.
Infatti introduce nuove materie d’insegnamento nel seminario vescovile, dove chiama educatori di valore ed incoraggia la rinascita del tomismo (con il domenicano Zigliara ed il proprio fratello Giuseppe Pecci).
Promuove la riforma di opere assistenziali; detta nuove regole del Monte di Pietà; apre i Giardini di San Filippo, anticipazione degli asili infantili; chiama dal Belgio nuovi ordini religiosi con compiti assistenziali; restaura insigni edifici cittadini.
Per tante iniziative nel 1853 si ebbe il titolo cardinalizio di San Grisogono ed in tale veste assunse più sicure prese di posizione verso il governo centrale nell’intento di migliorare provvedimenti politici ed economici.
L’anno 1859 vede la rivolta nelle Legazioni Pontificie e la stessa cacciata da Perugia del governatore pontificio: il Pecci non trova affatto incompatibile l’esercizio della sua carica , dalla estraneità alle cose politiche. Malgrado ciò, da massoni e anticlericali verrà tacciato di connivenza per le cosiddette “stragi perugine”.
Una estraneità documentata da prove ineccepibili, fino all’annessione della città di Perugia e della Regione Umbra al regno di Vittorio Emanuele II il 14 settembre 1860.
L’occupazione militare di questa parte dello Stato Pontificio venne a creare delicati problemi anche di natura giuridica, ma trovò nel Pecci il difensore della Chiesa, in termini affrontati da un suo lungimirante conterraneo, il cardinale Vincenzo Santucci, assertore di una soluzione politica che divenne in seguito la Questione Romana.
Perfino la breccia di Porta Pia non fu un vero ostacolo alla sua missione, tanto che Ruggiero Bonghi, pubblicista e uomo politico, così confermava: “Le sue pastorali sono singolarmente schive d’ogni allusione politica. Il dominio temporale non v’è nominato una , sola volta; nessuna sottigliezza vi scoprirebbe un’allusione al Governo Italiano, che l’ha distrutto”.
Morto il cardinale Antonelli, Pio IX lo nominò Camerlengo di Santa Romana Chiesa, ma egli non volle lasciare per tale prestigioso incarico la sua diocesi.
La benedizione del morente Pio IX al mondo cattolico, mentre tramontava il più antico stato monarchico europeo, concludeva un pontificato lungo ben 32 anni. Il card. Pecci assunse i pieni poteri per un conclave che si prospettava lungo, tormentato, difficilissimo.
Si pensava che l’occupazione italiana di Roma influenzasse negativamente le future scelte dei conclavisti; tanto da esprimersi essi per altre sedi in altre nazioni (Spagna, Austria, Monaco di Baviera, Malta!): ed il Crispi, al contrario, per mettere a tacere voci allarmistiche, mise in atto una severa vigilanza attorno alle mura vaticane, convinto che una tale decisione avrebbe costituito un grave errore politico.
Risultò invece uno dei più sereni e brevi conclavi: il 20 febbraio 1878 venne inopinatamente eletto alla terza votazione il sessantottenne card. Gioacchino Pecci, con il nome di Leone XIII (1878-1903), il lumen de coelo della profezia di San Malachia. Ottenne 44 voti su 60 cardinali (73,33 %).
Si pensava ad un papa di passaggio, atto a risolvere la scottante Questione Romana: regnò 25 anni.
Ma altri problemi investivano una Chiesa ormai cattolica, in un contesto sempre più mondiale: l’arroccamento del Sillabo di papa Pio IX con relativo pericoloso isolamento della Chiesa; lo scontro violento in Italia tra cattolici e liberali; in Germania la Kulturkampf ed i Vecchi Cattolici; in Austria, Belgio, Portogallo e Spagna la Chiesa in seria difficoltà; quasi del tutto ignorata nel mondo russo e anglosassone.
Leone XIII ebbe chiara la coscienza della missione affidatagli: far sentire la voce della Chiesa all’interno della civiltà moderna, che si andava progressivamente allontanando dagli insegnamenti cristiani.
Un progetto di riconciliazione universale: l’uomo aspira a giusti principi di libertà e dignità che la Chiesa non può misconoscere; non si può rimanere indifferenti alla povertà, all’oppressione, all’analfabetismo, alla scristianizzazione. Seguendo l’esperienza perugina propugnò la formazione teologica e filosofica del clero; combatté la triste condizione sociale del proletariato con le organizzazioni di mutuo soccorso, di movimenti operai cattolici, propugnò il riscatto del mondo del lavoro e della scuola.
Fondamentali tappe del suo pensiero sono le celebri encicliche: Aeterni Patris (1879), vera scossa intellettuale per porre fermezza alla filosofia in cui si incarnavano gli stessi principi della Chiesa; Immortale Dei (1885), chiarificazione della controversa separazione tra Stato e Chiesa, con la conseguente difesa del matrimonio religioso, della famiglia, dei diritti civili fino alla libertà di stampa; Rerum Novarum (1891), vangelo sociale, che lo consacrerà davanti al mondo “papa dei lavoratori”.
Un lungo pontificato, una luminosissima scia che papa Leone XIII, un lepino del sonnacchioso Stato Pontificio, apriva alla speranza: “una grandiosa volontà di restauratio non più attraverso le vie della restaurazione politica, all’inizio del secolo XX, ma con la dedizione affettuosa al mondo moderno scaturita da una più che fondata preoccupazione per la salvezza dell’umanità. Il fatto che dopo la sua morte, avvenuta il 20 luglio 1903, l’elezione del nuovo papa abbia mosso le potenze politiche molto più che non nel 1878, fu anche dovuto al prestigio che Leone XIII aveva guadagnato al papato in tutto il mondo”.
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