ritratto leone xiii

Leone XIII cacciatore e alpinista

Tratto dal libro “il Capreo monte di storia e di poesia” a cura di Italo Campagna

Leone XIII cacciatore e alpinista


Oltre valente cacciatore, il giovane Pecci era agilissimo alpinista. I vecchi, particolarmente il Salvagni, non rifinivano di ricordare la meravigliosa facilità con cui saliva gli alti monti dei dintorni. Il colonnello ordinava al guardiano e al Briganti di portare il cavallo per il signor Nino (nome familiare di Leone XIII), ma non ne usava quasi mai, preferendo di camminare; e il Briganti diceva:” Guarda un po’ ! per causa del signor Nino, non posso andare a cavallo neppure io”. Con lui girava in tutti i sensi il territorio. Una volta, raccontava il Salvagni, fece con mons. Roberto Lolli, vice legato di Velletri, una gita fino al Pozz.0 della Neve (Quel pozzo era una escavazione dove tutto l’anno si conservava la neve, di cui la famiglia Pecci aveva l’appalto. Uno dei suoi principali clienti era il signor Graziosi, più tardi creato duca dalla Santa Sede, che aveva l’appalto della neve per Roma), valle cupa e boscosa, posta a 1337 metri di altezza sul livello del mare, tra la Semprevisa e il Cupreo. Un’altro giorno spinse la sua ascensione sino alla vetta stessa del Capreo, dalla quale si contempla un panorama senza pari a ponente, il mare Tirreno con Anzio, Nettuno, Norma, Cori, Cisterna, Velletri, Civita Lavinia, Monte Lupone al nord-ovest, la sterminata Campagna Romana e i Colli Albani; a settentrione, il Soratte; e, da nord a levante, i monti della Sabina, sui quali campeggiano Gallicano, Palestrina, Cave, Genazzano, la Forma, Olevano, Paliano, Filettino, Acuto, Anagni, Gorga, la valle del Sacco, il Terminino; a levante, l’Appennino ; entrale dominato dal Gran Sasso, l’Abruzzo con l’Aquila e Sulmona, poi Arpino, Aquino e Montecassino; al sud-est il monte Gemma e l’imponente xiangolo del Cacume; e sotto i piedi, Carpinete, stendentesi al sole come una serpe. Dopo godutosi lo stupendo spettacolo, si accorse che una delle tre croci I faggio ivi piantate da tempo immemorabile era stata rovesciata e frantumata ial fulmine. Appena tornato nel paese eccitò i suoi compaesani a collocare sul Zapreo una nuova croce; senza por tempo in mezzo, il canonico Gavillucci, ouo primo maestro, si recò con altri preti e secolari, e adempì al suo voto. Fu ‘”re per aderire ad un suo desiderio che, il 29 agosto 1901, vi venne eretta la . an croce che domina la intera regione.
In una bella giornata d’autunno, allorché stava ali’ Accademia Ecclesiastica,
ali di nuovo col suo amico mons. Milella, al Pozzo della Neve. I Cacciotti,
che vi avevano un procoio, cioè uno stazzo per le pecore, si erano preparati a
riceverli, e offrirono ai visitatori i frutti del loro gregge. Mentre li assaggiava,
giovane Pecci osservò che una pecora stava incastrata col capo fra due stanghe
onde non poteva uscire. “Perché” -domandò- “questo povero animale si trova
sì incastrato?”
“Sta in castigo – risposero i pastori-” perché non volle allattare il figlio: costretta a stare ferma e non potendo fuggire, l’agnello le si accosta e si allatta da sé.” Allora Nino, ridendo, percuote con il fucile piano piano il capo della pecora, dicendo: “Birbona. ..IBirbona. ..!” La pecora nel sentirsi percuotere, scuote la testa, da indietro, si svincola e esce dalle stanghe. Nino nel vedere questo, si tapina e chiede scusa:” Oh! Che ho fatto! “esclama.
“Non è niente. ..,non è niente “- rispondono i pastori -“la rimetteremo a posto”. Dopo essersi fermato qualche tempo sotto i fronzuti e alti faggi che ricoprono il pozzo, e gustato il latte rinfrescato dalla neve, Nino si alza e rapidamente sale il Capreo, giungendo al Crepe Cariino. Mons. Milella tenta di seguirlo, ma presto si da per vinto e si arresta. Quando lo vede sparire fra i faggi, procura di richiamarlo col fischio, ma invano. Finalmente eccolo che ricomparisce e, scendendo a precipizio, si ritrova nel procoio. Stabilisce allora di salire con tutti alla Semprevisa e mettendosi, come al solito, alla loro testa, li conduce per i fitti boschi di faggi sino alla Schiazza Paolone, lunga pietra levigata, stesa sul suolo, la quale porta rozzamente incisi con punta di coltello, alcuni motti e i nomi di molti, tra cui qualche brigante, che vi si sono riposati. Ai due abati inaspettatamente si presenta il vasto e sorprendente panorama della Paludi Pontine, con a sinistra il Circeo e il mare. “Che bellezza! Magnifico!” esclamano diverse volte. Poi proseguono a salire. Nino, cui la grascia non da fastidio e che nelle escursioni come nella vita sembra aver preso per divisa quella dell’eroe di Longfellow: “Excelsior!” non da segni di stanchezza, ma mons. Milella, che ha tessuti adiposi più sviluppati, lo segue alquanto affaticato. Giunti in cima, dovrebbero vedere tutto il mezzogiorno d’Italia fino al Vesuvio, Capri, lo scoglio di Sorrento, e i monti di Avellino e di Benevento, ma disgraziatamente le condizioni cattive dell’atmosfera non lasciano ben distinguere, neppure col cannocchiale che hanno con loro. E’ spesso così nelle ascensioni, lo sappiamo purtroppo per esperienza propria: i panorami celebri si vedono, il più delle volte, cogli occhi della fede.
Nino non dimenticò mai l’eccelso Capreo. Da Bruxelles, il 14 febbraio 1844 egli scriveva al fratello Carlo:
“Lasciate, carissimo fratello, che io mi occupi del Belgio, ove la volontà del Signore mi ha chiamato a compiere una grave missione. I doveri e le occupazioni che mi da l’Ufficio sono oltremodo delicati e difficili, come facilmente comprenderete, senza che io ve ne debba parlare: solo vi pregherò di tenermi presente nelle vostre orazioni, affinchè il Signore mi assista colla sua santa grazia. La vostra mattutina preghiera sorga dalle falde del Capreo, e trovi grazia in Cielo a mio prò, e a vantaggio del Belgio. Sarà la prima volta, io credo, che Carpineto, il Capreo ed il Belgio nel cielo si incontreranno!… “
Un’ altra meta delle sue ascensioni era, quando si recava a Maenza dal fratello Titta, il boscoso monte Matarese. Luigi Martella, detto Zi’ Frate, racconta che, una volta che l’accompagnava, il signor Nino, giunto davanti al monte si fermò e disse come in estasi: “Bel Matarese, quante volte t’ho salito e ammirato!”
Un giorno, salito a fianco del monte Parentile, attraversò Collemezzo, il Pozzo della Selva e salì la vetta del Colle della Schina, dove si gode pure una stupenda vista. Il fido Salvagni gli disse: “Sor Nino, andiamo a Norma; dista circa un’ora di qui…”. Rispose Nino: “Basta così; mi contento di vedere qui Norma”. Fecero il ritorno per le Forcelle e l’Ara della Spina. Qualche tempo dopo però non fu così savio. Cacciando s’inoltrò per i boschi di Collemezzo, di Norma e di Cori, e smarritosi, girando di qua e di là, si trovò davanti a quest’ultima città. Stanco ed assetato vi entrò e andò a ripararsi Si casa Fochi, parenti dei Prosperi. La famiglia Fochi fece del tutto per indurlo i rimanere in casa, essendo la giornata già avanzata, ma siccome non aveva avvertito il padre, volle ripartire assolutamente e giunse a tarda notte a Carpineto. Il buon colonnello lo rimproverò. “Quella” -diceva più tardi il papa,- “fu l’unica volta che diedi un dispiacere a mio padre”.
Sbagliava tuttavia: gliene aveva dato uno ancor più forte. Una mattina,
messosi d’accordo, nella sera precedente, con Angelo Briganti e il guardiano,
esce di casa all’insaputa del colonnello, traversa tutto il paese, sale su a san
Pietro e prende la via dei castagneti. I contadini raccolgono le prime castagne
le offrono cortesemente a lui, che ne prende qualcuna, scambiando alquante
parole con essi. Uscito fuori dei castagneti, prosegue la salita per la via
mulattiera fiancheggiata da cespugli di elcini e di carpini. Egli corre sempre
innanzi, come un capriolo – così si esprimevano i vecchi che lo videro – e il
Briganti a gridare: “Piano,…piano…, per carità, altrimenti papa ci sgrida perché
d sudato e ti sei strapazzato”. La salita si fa più ripida: siamo alle tortuose
Scale Potenzia: le sale velocemente e si trova su la cresta del monte, di contro
i una splendida veduta degli Appennini e del mare. Lasciando a destra il
parentile, discende all’Ara della Spina, dove la sua famiglia possiede vasti
terreni. Lì, un po’ stanco, si siede, viene circondato da pastori e pastorelle: chi
offre latte in secchietti di latta, chi burro avvolto in foglie, chi ricottine
“coperte di foglie di felce, e tutti a gara gli dicono: “Prendi, prendi, signor
nino”. Egli imbarazzato ringrazia e, per cortesia, prende qualche piccola cosa.
I congedatosi dai pastori e ripreso il cammino, discende al Rapiglio, dove altri
astori stanno abbeverando mandre di bestiame in lunghi scifi scavati in grandi
ronchi di faggio e che vengono continuamente riempiti di acqua freschissima,
che sgorga dalla sovrastante scogliera in gocce, in cascatelle, in fili d’argento.
Gioacchino, dopo aver bevuto e fermatosi un poco a contemplare la bella scena
alpestre, sale sempre infaticabile il Belvedere, centro di un altro stupendo panorama. Intanto le ore sono trascorse e le ombre scendono. Bisogna tornare di corsa ma per quanto si affretti il passo, si giunge in casa dopo il tramonto. Il povero colonnello è tutto agitato, temendo qualche disgrazia; veduti arrivare finalmente i tre compiici, s’irrita, fa aspri rimproveri al guardiano, e picchia di santa ragione quel brigante di Briganti, che fugge, ma poi è richiamato. In quanto a Nino, si richiude in camera, umiliato e mortificato. Il padre non voleva più farlo tornare a Carpinete l’anno appresso. Beati i genitori a i quali i figli non danno altri motivi di lamento!
Un certo Giuseppe raccontava sempre che il signor Nino, cacciando alla Macchia delle Vagli e percorrendo la parte bassa del Cerreto, fu sorpreso da un orribile temporale; la pioggia cadeva a torrenti e la nebbia era fitta al tal punto da fargli smarrire ogni sentiero. Dava di piglio ai grandi tronchi di cerro, né sapeva più orizzontarsi per rifugiarsi nella cosiddetta Casetta o Porcareccia, che non riusciva a trovare. Tutto inzuppato ed affranto, traversando rigagnoli e affondando nel fango, scorse alla perfine una colonna di fumo, che usciva da una capanna e vi si diresse frettolosamente. AH’ angusto ingresso si vide innanzi i tre fratelli Battisti, che appena discerneva, perché avvolti nella nebbia e nel fumo. Questi rimangono come interdetti a tale apparizione inaspettata, a quell’ora e con quel tempo, e non sanno quasi che cosa dirgli. Lo invitano timidamente ad entrare e, vedutolo tutto bagnato da capo ai piedi:
“Signorino -gli dice uno di essi- abbiamo là un fagotto di biancheria e di panni, portato adesso da Carpinete; è roba tutta pulita. Se vuoi cambiarti e indossarli, frattanto si asciugheranno avanti a questo gran fuoco quelli che porti addosso. ..”Il giovanotto acconsentì e ritiratosi in un cantuccio della capanna, si tolse fin la camicia e si vestì completamente da pastore. Migliorato il tempo e asciugati i propri panni, li riveste e postosi il fucile in spalla, dopo aver regalato qualche scudo a quella brava gente, riprende la via di Carpineto. I suddetti pastori sempre ricordavano e avevano davanti agli occhi il signor Nino rivestito da pastore. Il capraio Astri, soprannominato Bellino, da cui il conte Ludovico Pecci apprese il curioso fatto, stimolava Giuseppe Battisti, quando Nino fu diventato papa, a recarsi a Roma per rammentargli quel!’ avventura, ma Giuseppe non volle mai. Peccato che la fotografia non sia stata scoperta più presto: a tanti altri ritratti di Gioacchino Pecci in abiti sontuosi, avremmo da aggiungere uno con abiti da pastore!
Un giorno, in compagnia di Agostino Cacciotti si diresse verso la Grotta del Malconsiglio, celebre per il taglio delle orecchie dei bassianesi, della quali secondo la leggenda, i carpinetani riempirono due bigonci. Entrò nella grotta dove questi furono depositati e la visitò attentamente
E ‘ vero il fatto?” gli domandarono i pastori. -Vero, verissimo- rispose egli.
rimessosi in cammino, passò ad osservare la Valle della Corte, dove avrebbe
avuto luogo il giudizio, il Colle Orecchia dove esso fu eseguito e passando per
la. fitta macchia del Pio, allora del principe Doria, giunse alla chiesolina del
crocifìsso, il quale simulacro gli fu scoperto dall’eremita, cui fece una generosa
elemosina. “Quante porte sono a Bassiano” domandò alla guida.
“Due -rispose Cacciotti- da una si entra e dall’altra si esce”
“Andiamo allora -rispose Nino- se vi domandano chi sono, dite che sono
un forestiero che avete trovato in questa contrada, a cui fate da guida”.
Nell’ attraversare però il paese, nella piazza coperta, si fa innanzi una persona
domanda ad Agostino chi è il signorino che sta con lui. Agostino, fedele alla
consegna, risponde di essere uno che viene da Sezze e che lui accompagna.
Usciti dal paese, discendono attraverso le Prato di Bassiano e risalgono la
costa. I bassianesi tuttavia si avvidero presto che il forestiero altri non era che
signor Nino, e gli corsero dietro per complimentarlo, ma si era già troppo
allontanato per essere raggiunto. Quando Pasquale Salvagni andava a Bassiano
per vendere i suoi lavori di rame: “Eh, il signor Nino Pecci ce l’ha fatta –
dicevano i bassianesi- se ce ne accorgevamo prima non ce lo lasciavamo
sfuggire”. Che gli volessero tagliar le orecchie per vendicarsi dell’affronto
inflitto dai suoi compatrioti ai loro antenati?
Nel ritorno ai Caprei, dove pascolavano le pecore dei Cacciotti, trovò il contadino Giuseppe, detto lo Scarico, che sedeva mangiando. Vedendo comparire all’improvviso un alto giovine signore armato in mezzo a quelle rupi, si spaventò, ma rassicurato da questo, gli offerse pizzola e caldarroste. ‘ secondo il suo solito non prese che un pezzetto di pizzola e tre castagne. ‘Sai leggere?” domandò egli al contadino. -Un poco-
Ebbene ti regalo questo libro intitolato “Breve corona, atti d’amore verso dio”
spesso Agostino lo portava al suo procoio di Valviscìolo, dove si vedevano
gli avanzi dell’antica abbazia fabbricata dai Basiliani nei primi secoli del
cristianesimo. Lì si fermò per riposare, e trasse di tasca un libro che conteneva
la descrizione del venerabile monumento, “dolendosi che il tempo avesse
distrutto un sì caro ostello di preghiera e di santità”.
i1 cardinal Ciasca raccontava il seguente fatterello, inteso dalla bocca del papa stesso. Questi una mattina in compagnia di un uomo, si recò sempre cacciando fino alla pittoresca Gorga, dove giunse verso il mezzogiorno. presentatosi in casa Fioramonti, distinta famiglia amica della sua e che ha dato liiesa un segretario delle Lettere latine, fu accolto festosamente. Perché
si faceva vedere così di rado? Non era dunque il benvenuto? Di diedero subito premura di preparargli un buon pranzo. Mangiò con quell’appetito che danno il moto, l’aria montanina e la giovinezza.
“Eh! riposati un pò” gli dissero, quando ebbe restaurato le sue forze; ma si faceva tardi e, questa volta, ricordandosi delle furie del colonnello, Nino volle, a qualunque costo, tornare immediatamente a Carpinete. Mal gliene incolse. Lungo il viottolo che costeggia il profondo torrente di Valle Cisterna, s’intese male; un sudore freddo gli invase tutta la vita, e cadde a terra svenuto. Il suo compagno, spaventato, gli usò tutte le cure, spruzzandogli acqua fresca sul viso. La sua ora non era ancora suonata. Presto si riebbe e, senza preoccuparsi, continuò a piedi la strada fino a Carpinete.
Altri compagni delle sue escursioni erano i fratelli Cappucci, che erano dodici e quasi tutti ex sbirri; anzi Francesco era stato barigello, cioè capo delle squadriglie, il più temuto dal famoso Gasperone.
Gli narravano le lotte avvenute coi briganti in quelle contrade, ed esso li ascoltava con vivo interesse. Riporteremo anche noi qualcuno di tali racconti, credendo di far cosa gradevole ai nostri lettori, e per completare quel che abbiamo riferito sul brigantaggio, senza però, s’intende, renderci garanti della loro veridicità. Non hanno tutti i torti i francesi ,quando chiamano una storia di briganti una novella inverosimile e poco degna di fede!
Un giorno, gli raccontava Francesco Cappucci, Diciannove si trovava con la sua squadra nella località detta le Canapine, proprio sotto il paese, e i briganti si aggiravano fra le annose querce e piante di canapa e di tabacco che ivi allora si coltivava. Corse nel Diciannove l’idea di farsi radere l’ispida barba e così gli altri. Mandarono al paese a chiamare Giuseppe Rossi, fratello del curato di S. Nicola, che era barbiere. Il Rossi si recò da loro, collo spavento nell’animo. Rase dunque la barba, prima al capo, poi ai suoi subalterni, ricevendone da ciascuno un papetto d’argento ed un bicchierino di liquore che era stato fatto portare da Sussitto. A uno che non si era fatto innanzi per radersi ,domandò timidamente:” Ma lei non si fa la barba? “E il brigante, spavaldamente e con tanto di cipiglio, soggiunse:” Io mi farò la barba quando avrò ammazzato e fatto a pezzi il Barigello di Gorga”. Gli diede però ugualmente un papetto e un bicchierino di liquore. Poi Diciannove .rivolgendosi ai suoi bravi, disse loro enfaticamente, accennando al Rossi: “Questo è un bravissimo tiratore; lo foste voi altri!” E ordinò al Rossi di tirare al brocco. Tremando nella vita, perché temeva sempre di qualche tradimento e sorpresa, il povero barbiere tirò e colpì perfettamente. “Lo vedete -esclamò il Diciannove- quel che vi diceva!” Mandarono poi a chiedere alla famiglia Pecci da mangiare, e Anna, facendo di necessità virtù, inviò una donna con una canestra ripiena di ogni ben di Dio.
Come si vede i contumaci si mostravano generosi verso la povera gente, e non taglieggiavano che i ricchi. Perciò erano popolari.
Un pomeriggio, che il giovane Pecci e Tommaso Cappucci passavano innanzi alla grotta di Campo Rosello, sotto la Semprevisa e sopra Sezze, entrarono in quel ridotto per riposarsi, e il Cappucci gli raccontò che, al tempo dell’Impero francese, si erano rifugiati in quella grotta i briganti comandati da Gasperone, Minocci e Giovanni Rita, la cui moglie si era ivi ritirata per partorire. Avvenne che la squadriglia comandata da Tommaso attraversò la macchia, e uno dei birri travidde nel folto dei faggi un’ombra. Andarono allora tutti contro la grotta e s’impegnò una terribile mischia. I briganti sopraffatti fuggirono, meno Rita, che non voleva abbandonare la moglie.
“Giovanni, Giovanni, fuggi, fuggì!” gli gridarono i compagni. Ma non volle lasciare il posto e continuò a battersi accanitamente; la moglie caricava il fucile, e egli sparava. Finalmente gridò: “Venga avanti il Cappucci, mi arrendo a lui”. Invece di Cappucci si fece avanti un altro per spavalderia e, prendendo a tradimento il Rita, da basso gli tirò un colpo e lo ferì ad una gamba. Allora tutti gli altri gli furono sopra e lo uccisero, arrestando la moglie.
La squadriglia però non tenendosi sicura e temendo un altro assalto, manda a Sezze per avere l’aiuto dei soldati francesi. Vengono a tamburo battente, gridando: “Ah! les brigands! ah! les brigands! “Giunti sul posto, attaccarono briga con i militi della squadriglia, volendo essi il capo spiccato del Rita, per aver la gloria di portarlo trionfanti dentro Sezze. Non si sa come la cosa finì: Si sarebbe però potuto risparmiare quest’ultimo sfregio a un disgraziato che si era sacrificato per salvare l’eroica donna. Quei briganti avevano talora qualche cosa -dei cavalieri antichi.
Un altro giorno Gioacchino e Tommaso salivano la valle del Pozzo della Neve, giunti all’Acqua di Mezzavalle, Nino volle discendere nel fondo del fosso per dissetarsi a quella fonte di scarsa, ma freschissima acqua, e poi prendere un poco di riposo.
“Qui” -disse il Cappucci”- me ne accadde una bella, ma bella assai, signor Nino -Che cosa ti accadde?- Mi accadde una cosa che non crederà lei, che la riterrà per una favola, trattandomi da buffone e visionario”.
– In ogni modo, raccontala. –
-Eravamo in un tempo in cui queste montagne erano piene di contumaci. Io mi trovavo a Sezze con mio fratello il barigello Francesco per ragioni di servizio, quando mi vedo giungere uno soprannominato Padovano con una lettera.
-Che c’è di nuovo? gli domando io .-C’hai gente nuova a casa”. La mia moglie aveva partorito e dato alla luce una femmina a cui fu messo il nome di Luisetta. Comunico la lettera a mio fratello Francesco e gli dico di dover partire.
Mi offre la sua compagnia e quella della squadriglia per il pericolo che c’era di incontrare i briganti, ma io la ricuso, essendo coraggioso. Dico al Padovano di partire ed annunziare a mia moglie il mio ritorno, partendo da Sezze all’Ave Maria. Infatti così faccio. Salgo il monte dellaSemprevisa, e giunto àllaSchiazza Paolone, mi fermo e tendo l’orecchio: tutto è tenebre e silenzio profondo, interrotto solo dall’ululato dei gufi che si trovano in mezzo al bosco di faggi. Proseguo innanzi, trapasso il Pozzo della Neve, e arrivo qui dove siamo. In quel momento sento un calpestio: tic, tac, tic, tac… Mi arresto e guardo e veggo nell’oscurità un uomo che a cavallo procede avanti. Me ne rallegro, perché ho trovato compagnia, e, volto verso quello che cavalcava il somaro, gli dico: “Buon patriotta, aspettami; andiamo insieme”.
Nessuna risposta e proseguiva innanzi. Allora ripeto: “Buon patriotta, buon patriotta, aspetta, aspetta”, ma inutilmente; proseguiva sempre, e, per quanto affrettassi il passo, non lo potevo raggiungere. Allora, preso da stizza e ira, gli scarico il fucile addosso. Fatto questo succede un pandemonio: scoppi, mastini e questa macchia che vediamo, tutta in fiamme. Io rimango spogliato di tutto, meno che del fucile. Spaventato fuggo fino al procoio di Ricci, detto Cicione, e, inorridito gli racconto l’accaduto. Il Ricci, nella mattina, si reca qui e trova tutti i miei oggetti, ma dell’uomo e del somaro che cavalcavo nessuna notizia. Che cosa ne era avvenuto? Mistero”.
Gioacchino che aveva seguito con interesse il racconto, fece infine un segno di incredulità. E allora il Cappucci non riuscendo a convincerlo gli raccontò un altro, meno misterioso, ma più tragico.
“Io” disse,” mi recai a Filettino, dove bazzicava Gasperone. Questi, saputolo, sospettò che mi avesse fatto la spia e mi avesse chiamato un certo massaio, padrone di più di migliaia di pecore. Si porta direttamente in casa di costui, coi suoi bravi, lo fa prendere e condurre al procoio, dove aveva un gran numero di pastori e garzoni. Gasperone ordina a questi di mettere una caldaia d’acqua sul fuoco, di uccidere un montone e di cuocerlo nell’acqua quando questa sarà calda. Poi dice al sanguinario Minnocci: “Fa il tuo dovere”. S’intese un orribile grido: “Madonna, aiutami !…” 11 massaio fu preso, sventrato, tagliato in quattro pezzi e questi messi nella caldaia a cuocere. Dopo cotta tutta questa carne umana, comanda a tutti i pastori e garzoni di mangiare, sotto pena di essere squartati e cotti. Dovettero ubbidire!” Eppure il Cappucci assicurava che il massaio né gli aveva fatto la spia, né lo aveva chiamato.
“Giacché ci siamo- proseguì Tommaso -te ne voglio raccontare un’altra di Gasperone. Questi si presenta un giorno al seminario di Terracina e manda a dire al rettore che lo attende il barigeìlo Francesco Cappucci di Carpinete, con la sua squadra. Deve sapere, signor Nino, che Gasperone temeva soltanto
della squadra del barigello Cappucci. Ordina al suo sanguinario Minnocci di mettersi alla porta per guardia. Viene il rettore, e Gasperone gli comanda di far venire dodici ragazzi seminaristi delle migliori famiglie, facendoseli nominare uno per uno; poi, coi suoi compagni, li porta tutti alla Palude e alla macchia di Terracina. Questo fatto spaventoso solleva un rumore terribile e un movimento straordinario di forza. Questa circonda tutte le paludi e le macchie, e il Gasperone, non trovando più uscita, si vede perduto. Che cosa fa? Riunisce quante bestie più può: vaccine, tori, bufali, ecc, le rinserra in una ristretta e le fa inferocire, e, quando vede vicina la forza, apre i cancelli e fa correre contro di essa tutte le bestie. Così in questa confusione, ebbe agio di fuggire con i suoi compagni, portando via solo due ragazzi”.
Come si sa, simile stratagemma era già stato adoperato da Annibale e lo è stato di nuovo ,in questi ultimi anni, nella guerra del Transvaal, dal famoso capo boero De Wet. Non per niente il Gasperone era il re dei briganti.
Discorrendo, i cacciatori erano giunti alla Schiazza Paolone, e Gioacchino si fermò ad ammirare una volta di più lo stupendo panorama delle Paludi Pontine e del Tirreno. Meno facile all’entusiasmo estetico, il Cappucci approfittò della sosta per raccontare un’altra storia.
Un giorno, disse, si recò a trovare suo fratello, e seppe da certa donne, le Cocciarde, che nella casa delle Maestre Pie era rifuggiato un brigante ammalato. Egli si mette la cappottella, nasconde sotto di essa la carabina e esce. “Dove vai?” gli domandano. “Ad ammazzare un tordo quassù”, risponde. Intanto la donna che ricettava il rifugiato era andata a chiamare il medico. Entra il Cappucci: il brigante ,giacente sotto una scala, crede, a prima vista, che sia il medico, ma poi avvedutosi che è il Cappucci, esclama: “Per S…Diavolo, è Cappucci!”, e questo tira un colpo e lo uccide.
Nino si alza, proseguendo la salita per la Semprevisa, e Tommaso non cessa dai suoi racconti. Narra che un suo fratello, Barnaba Cappucci, seppe dove stava il famoso capo brigante il Calabrese, da una donna, che gli portava da mangiare alle mole di Ceccano, dove era un pozzo. Il Cappucci non troppo si fidava di quella donna e temeva che lo facesse cadere in qualche tranello, ma quella lo rassicurò. La donna si avvia con il suo carico, si ferma al pozzo, e si mette a battere due pietre con la mano, ma il Calabrese grida: “Sac.o, che batti, che batti? Non ti ho forse veduto?”
Cala dal monte e giunge al pozzo, dicendo di voler bere. La donna gli dice che c’è del buon vino, ma gli risponde che preferisce l’acqua. Mentre è chinato ad attingere l’acqua, il barigello gli tira un colpo e lo fa rimanere secco.
In una escursione a Valle Minuta, Tommaso Cappucci, fermandosi disse a Nino:
“Qui ci fu una battaglia coi briganti. Gasperone portava via, catturata, la
signora Barbacini di Maenza. Accorsi io e mio fratello Francesco con la squadriglia; s’attacca una zuffa terribile fra i briganti e noi.
Gasperone gridava a mio fratello, provocandolo:” Ti vogliamo mettere, signor Cappucci, le orecchie al cappello. “E Francesco di rimando:” Caperai Antonio, fatti avanti, fatti avanti, se hai coraggio! “Mentre si battevano si ruppe la bacchetta del mio fucile e dissi al mio vicino: “Dammi, dammi la tua bacchetta per caricare”. Mentre me la gittavano ed io la raccoglievo, due palle mi fischiarono alle orecchie e mi rasentarono la faccia. I briganti riuscirono a portare via la signora a Prossedi”.
Più tardi Gioacchino Pecci non si scordò di quei bravi compagni. Quando fu nominato Delegato di Benevento, provincia ancora funestata dalla piaga del brigantaggio, vi chiamò cinque di quei fratelli ed affidò loro la direzione della repressione, ma, sia per l’ignoranza del paese, sia per altre ragioni, poco o nulla conchiusero, e il giovane Delegato mormorava scherzosamente: “E con tanti Cappucci non ci posso fare una buona minestra!”
Gesualdo Pagano, pastore e capraio, il cui figlio, Angelo Maria, vive ancora, incontrò un bel giorno Gioacchino che passava per Selvapiana, ove dimorava Gesualdo, per recarsi a caccia alla sua macchia delle Vagli e gli raccontò che ai Colli, lì vicino, gli si presentò improvvisamente Gasperone con la sua squadra. Il famoso capo vestiva una ricca, scintillante uniforme militare di qualche ufficiale che aveva sgrassato sulla via Appia. “Sono undici giorni -gli disse, sospirando il brigante- che andiamo correndo per queste montagne, che c’inseguono da non credere, E tutto questo poi per soli 14 scudi che ci sono toccati a ciascuno di noi”. Certo siffatto incontro fu meno grato a Gesualdo di quello del signor Nino.
Andando a caccia per Valle Perti, dove si trovavano la Vallicella di Zucchino e la Valle del Lucino, Gioacchino fu circondato dai pastori e uno di questi, Giuseppe Astri, soprannominato Bellino, gli raccontò che anche a lui si presentò Gasperone con una squadra di 17 briganti .11 capobanda gli ordina che si uccidano due castrati e si cuocino. Dopo che esso e i suoi uomini hanno mangiato, il Gasperone domanda qual prezzo deve dare. Giuseppe risponde che nulla si deve. Il Gasperone insiste, dicendo di sapere quanto i poveri pastori debbano fare e soffrire per allevare il bestiame e gli da due monete d’oro, del valore di 4 scudi l’una. Poi i briganti si allontanano.
All’indomani l’Astri, che si trovava alla Valle del Lucino, mentre piovigginava vide avanzarsi da lontano un maresciallo, un brigadiere e due bersaglieri. Tremò pensando che venissero ad arrestarlo, per avere il giorno innanzi, somministrato vitto ai briganti.
“Da quando tempo non hai veduto i briganti? gli domandarono. -“Eh chi li ha visti, i briganti?” -rispose- sento dire che ci stanno, ma non li ho mai visti.”
-Come! gli hai uccisi due castrati.-
“Ma questo non è vero affatto” replicò stupefatto che ciò si sapesse.
-Ti prenderemo -soggiunsero- e ti porteremo a Frosinone, dove ti taglieranno la testa.
“Portatemi pure a Frosinone; mi farò tagliare la testa, ma i briganti non li ho mai veduti”.
Allora Gasperone, giacché era lui stesso, disse in tono solenne: “Bravo! bravo!…sei un vero uomo fedele”.
E, in così dire, si apre l’abito da maresciallo e appare tutta la divisa brigantesca. Il Gasperone, o Padron Antonio, come lo chiamavano, gli regala dieci scudi, ordinando ai suoi compagni di fare altrettanto .Non così andò per il povero Prosperi, detto Cicciocotto, nella stessa Vallicella del Lucino.
I briganti lo spedirono al colonnello Pecci per avere provviste di pane e d’altro. Sua moglie, fornaia di casa Pecci, saputo la cosa, in pubblico e ad alta voce, con parole sconce e disprezzanti, si mise a dire: “Per un …, i briganti se lo sono mangiato una volta il pane mio, ma non se lo mangeranno più! “Il colonnello in luogo del pane, mandò la forza, e i briganti, vedutala, se ne fuggirono. Il Prosperi, preso di paura, per 17 mesi non uscì dal paese; ma dopo molto tempo, e non sentendosi più contezza di briganti nelle vicinanze, si fidò e cominciò a tornare in campagna. Un giorno, i briganti si presentarono alla sua capanna, e, trovato il fratello, domandarono di lui .Fu risposto che in breve sarebbe giunto. Lo attesero e, avutolo fra le mani, lo squartarono, fecero quattro parti del suo corpo e le appiccarono a un noce vicino.
Come abbiamo detto, Gioacchino era più podista che cavallerizzo. Tuttavia cavalcava bene, prendendo per sé la bella cavalla baia, con una stella bianca sulla fronte, dello zio Antonio; ma il cavallo l’usava solo per accompagnare al Casino di campagna qualche persona di riguardo, per andare aMaenza, per venire da Roma e tornare. La strada carrozzabile tra Montelanico e Carpinete non essendo stata fatta, come abbiamo rilevato, che più tardi, egli montava a cavallo con lo zio all’Osteria Bianca, preferendo, fuori di questa circostanza, camminare.
Una grande gita a cavallo fu quella che fece nel 1833 con lo zio fino a Piperno dove pernottarono e donde tornarono a Roma in carrozza, passando per Sezze e Velletri. Nell’agosto dell’anno seguente, andò pure a cavallo, con i signori Martelli e Terdozi, a Piperno vecchio, e tornò in carrozza per Ferentino, Frosinone e Segni. Il Martelli così scriveva di questa gita, il 6 dicembre, al colonnello Pecci:
“Ebbi l’onore di far viaggio fino a Frosinone col suo figlio studente in Accademia Ecclesiastica, ed acquistai argomento a rallegrarmi seco- Lei per i
presagi che porge di eccellente riuscita. Egli non è punto degenere dagli altri ed illustrerà, io sono certo, la Romana Prelatura, e sia il di Lei contento per lunghissimi anni, che di cuore Le priego dalla bontà del Signore”.
Una città dove andava spesso, non sappiamo se a cavallo o a piedi, era Anagni.
“Ci è dolce sempre”, diceva il 26 maggio 1902, nel ricevere un pellegrinaggio della sua diocesi, “ricordare gli anni lontani di Nostra gioventù, quando, recandoci sovente fra le antiche mura Anagnine, ed ospiti delle notabili famiglie Gigli e Giannuzzi, avemmo campo di apprezzare la gentilezza di quel vetusto patriziato e di ammirare le superstiti vestigia della prisca grandezza della città regina degli Ernici”.
Non tutte le giornate, però, erano date alla caccia o alle escursioni. Dopo queste fatiche, ci voleva un poco di riposo, e, allora l’intrepido seguace di sant’Uberto si ritirava nella magnifica selva situata dietro il Casino.
Là vi è un maestoso secolare castagno, dall’enorme tronco cavernoso, con numerose escrescenze. Il giovanotto si sedeva in quella cavità, e, aperto qualche libro classico, per esempio il de Ojficììs di Cicerone, gustava insieme le bellezze della natura e quelle dell’arte. Il venerando albero, benché quasi denudato, è tuttora in piedi, e lo si addita ai visitatori come l’albero del Papa. Ogni anno andava a salutarlo e goderne l’ombra restauratrice. Né le querce e gli olmi del Giardino Vaticano glielo fecero dimenticare. Ogni volta che qualche famigliare o intimo suo tornava da Carpinete, non mancava di domandargli: “Avete visto il castagno?”
Allorché invece aveva da preparare qualche conclusione pubblica per il Collegio Romano, si chiudeva nello studio, per non uscirne che allorché si sentiva interamente preparato ad entrare nella lizza. Quando poi voleva semplicemente sognare e fare un po’ di siesta, nelle ore calde del pomeriggio, Gioacchino aveva scelto un altro castagno, più vicino al Casino, dal tronco grande, alto, diritto, frondoso, che, a due o tre palmi di terra, presenta una protuberanza in forma di sedile. Là si adagiava e si addormentava al canto dell’usignolo. Se in cambio provava il bisogno di fare un poco ginnastica ,si dirigeva verso un altro albero che s’incontra a destra di chi guarda il Casino in declivio, vicino alla vasca della calce. Siccome i picchi spesso vi facevano i loro nidi, si arrampicava impadronendosi degli uccelletti. A quell’uopo aveva forato dei buchi che si vedono ancora, dopo novanta anni, naturalmente ingranditi; è l’albero dei picchi.
Si racconta che, all’epoca delle sue Delegazioni a Benevento o a Perugia, -ci sia lecito, per poter tracciare un quadro completo della sua villeggiatura in
patria, di andare un pò al di là del termine che abbiamo imposto alla nostra pubblicazione, -essendosi recato a Carpinete con il fratello gesuita, p. Giuseppe, andavano spesso al Casino di campagna. Il giovane prelato non cacciava più col fucile, ma la sua passione per gli uccelletti non era morta. Gli fu detto, un giorno, che sopra un albero di castagno un picchio aveva fatto il nido.
Senza esitare un momento, egli si toglie il soprabito -che allora gli ecclesiastici portavano a passeggio, invece della sottana,- s’inerpica ,con le mani e coi piedi, all’albero; raggiunge il posto, quasi sulla cima, dove si trova il nido, e ivi si ferma rimanendo sospeso fra il cielo e la terra. “Scendi giù”, gli grida, un po’ spaventato, ma soprattutto scandalizzato, p. Giuseppe; e, per non vederlo, corre a nascondersi dietro il muro dell’orto. Ma monsignor Pecci non se la da per intesa, e ponendo la mano dentro il buco dell’albero, comincia a cavare ì piccoli picchi e, uno per volta, fino al numero di sette, li getta giù, facendoli cadere in un cappello che si trova ai piedi dell’albero. Poi, agile e leggero, scivola per il tronco e salta al suolo.
Questi tre alberi sono forse i soli testimoni rimasti ancora della sua adolescenza.
Il prodotto del grande castagneto del Casino veniva allora raccolto da tre coloni uniti in società: Francesco Guidi, Demetrio Polidori detto Pillocco, e Luigi Panetti. Tenevano a mesata tre giovani donne a raccogliere le castagne. Racconta il vivente Vincenzo Guidi, figlio di Francesco, che mons. Pecci amava scherzare con i suoi fratelli e,appena vedutili attorno, gridava loro: “Ragazzi, pronti! Principia la commedia”. E allora lanciava soldi in aria, dicendo che sarebbero stati loro se riuscivano ad afferrarli con la bocca, e, del resto glieli regalava lo stesso quando, fra le risate generali dei contadini che accorrevano per godersi spettacolo, non erano fortunati. Oppure li faceva mettere con la testa e le mani poggiate in terra, e i piedi sollevati in aria, e poi diceva: “Chi resiste di più a stare così avrà i soldi:” Una fiata che leggeva sotto il suo famoso albero, vide cadere sui suoi piedi una vera pioggia di castagne e sentì arrivare ai suoi orecchi dei canti melanconici. Erano le tre giovani donne che andavano raccogliendo gli oscuri frutti i quali annunziano l’approssimarsi dell’inverno, e li ponevano nel manicuto (canestra). Si avvicina loro, domanda come si chiamano e le invita a ripetere il canto che avevano interrotto appena scortolo. Si mostrano alquanto ritrose a farlo, perché è un canto d’amore; ma poi, preso coraggio dalla buona grazia di Monsignore, una di esse, Lucia Carella, allora appena quindicenne, dai biondi capelli e dagli occhi vivaci, che vive tuttora, ma paralizzata, la poverella! cantò timidamente la seguente canzone:
in dialetto carpinetano
“ciai sa treccia d’oro fatta a nave. ‘Gni piccolo vento te Ila smove. Quanto cammini la fai navigare,
Lo fai annamorare ogni ber core.
Quanto ci passi ass ‘arco trionfale,
‘m petto ciavete due lazzi der sole;
Gli angeli der cìelo ten stanno a chiamare:
Addove ne vai, o Donna, cor tuo valore, cor tuo splendore ? “
Monsignore si compiacque della cantata, ma, quando fu terminata, egli anche si mise a canticchiare, imparando alle ragazze un inno devoto. Poi le invitò a salire sul Casino, mostrò loro le camere a ciascuna e regalò un papetto:” La mattina della festa dei Santi”, disse loro, “venite a casa, bussate al portone, cercatemi e dite che siete le ragazze del Casino di campagna; penserò a farvi dare ad ognuna qualche cosa”:
Un’ altra mattina, se lo videro improvvisamente comparire e ,di nuovo si fermarono dal cantare. Monsignore le rassicurò, dicendo loro che non era un cattivo uomo, e, ponendo la mano sulla testa della più giovane, Lucia: “Che bei capelli!” esclamò: Si rinfrancarono e, dietro suo invito, cantarono la seguente canzone:
in dialetto carpinetano “Donna che ciai gli occhi niri e begli,
So’ ‘ncannellati d’oro i tuoi capigli. Quanto ‘i spicci chissi riccegli, In mezzo ar petto tuo son rose e gigli.
Vao pell’ aria gli amorosi uccelli, vao cerchenno cento belle figlie. Quanto ve a spasso co ‘ chesse donzelle Tu se ‘ la più bella delle meraviglie “.
E allora il Pecci, facendo da maestro, insegnò alle tre ragazze questo grazioso stornello:
“Canta il Rosignolo d’ogni parte. Il dolce suo cantar mi fa morire. Da certo tempo io di qua mi porto. Racconterò la tua felice sorte.
(* J. Fraikin, L’infanzia e la giovinezza di un papa, Leone XIII e gli albori del Risorgimento italiano ,1810-1838.Grottaferrata, tip. italo-orientale di s.Nilo, 1914, pp.394- 421)

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