ritratto caravaggio

Biografia Caravaggio

Fonte: Wikipedia
Giovinezza e formazione (1571-1595)

Prima del ritrovamento dell’atto di battesimo di Michelangelo Merisi, si credeva che il pittore fosse nato nel paese bergamasco di Caravaggio, nel 1573. A seguito della scoperta archivistica nel Liber Baptizatorum della Parrocchia di Santo Stefano in Brolo, è ormai fuor di dubbio che Merisi sia nato a Milano, e probabilmente il giorno 29 settembre (giorno di San Michele Arcangelo, da cui forse il nome Michelangelo. Meno certa è invece la data del 25 settembre), visto che l’atto di battesimo è datato 30 settembre 1571. Tale documento recita: «Adi 30 fu batz.o [battezzato] Michel angelo f[ilio] de d[omino] Fermo Merixio et d[omina] Lutia de Oratoribus/ compare d[omino] Fran[cesco] Sessa».

Pur essendo nato a Milano, i genitori del pittore – Fermo Merisi e Lucia Aratori – erano nativi di Caravaggio. Nel gennaio 1571 i genitori si sposarono e, sotto la protezione e l’aiuto del marchese di Caravaggio e conte di Galliate Francesco I Sforza (che fece loro da testimone di nozze), si trasferirono a Milano, probabilmente per lavoro, poiché sembra che Fermo Merisi fosse un magister (cioè uno dei maestri-architetti addetti ai cantieri delle chiese milanesi).È dunque ipotizzabile che essi vivessero nel quartiere centrale milanese dove, appunto, alloggiavano le maestranze della “fabbrica del Duomo di Milano”, e delle quali faceva probabilmente parte anche Fermo. Di diverso avviso è, invece, Maurizio Calvesi, che ritiene che Fermo Merisi fosse in realtà “maestro di casa” dei marchesi di Caravaggio e che esercitasse “sia pure modestamente, il mestiere di architetto”.

Oltre a lui, è confermata anche l’esistenza di una sua sorella, Caterina, più altri due fratelli, uno dei quali, Gianbattista, si farà prete.
Nel 1577, a causa della peste, i Merisi lasciarono Milano e tornarono a Caravaggio per sfuggire all’epidemia, ma qui morirono sia il padre sia i nonni del pittore. Terminata l’epidemia, nel 1584, Michelangelo torna nel capoluogo lombardo e viene mandato a bottega da Simone Peterzano, un pittore esponente del manierismo lombardo, che si professava un diretto allievo di Tiziano (si veda l’iscrizione in calce al suo autoritratto). Il contratto di apprendistato, datato 6 aprile 1584, è firmato dalla madre, per un costo pari a poco più di quaranta scudi d’oro. Secondo Mia Cinotti e Gian Alberto dell’Acqua, “il contratto di apprendistato col Peterzano, del 6 aprile 1584, sanzionava certamente un rapporto già in atto, perché Michelangelo risulta abitante nella casa del maestro.” Tutte le varie date dei documenti sono certe, considerando che in quel periodo era appena stato riformato il calendario.

L’apprendistato del giovane pittore si protrae per circa quattro anni, durante i quali apprende la lezione dei maestri della scuola pittorica lombarda e veneta. Dalle Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini (1558-1630), uno dei biografi dell’artista, abbiamo notizia del carattere del giovane Caravaggio in quegli anni: «Studiò in fanciullezza per quattro o cinque anni in Milano, con diligenza ancorché di quando in quando, facesse qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così grande».
Gli anni che vanno dal 1588, anno di scadenza del contratto con Peterzano, al 1592, ultima testimonianza della sua presenza in Lombardia prima di raggiungere Roma, sono piuttosto nebulosi. Secondo quanto scrive Giulio Mancini, la madre del pittore muore a Milano il 29 novembre 1591. Risolte le pratiche sulla spartizione dell’eredità (di cui è pervenuta la documentazione d’archivio), il giovane Merisi lascia definitivamente la Lombardia per andare a Roma a circa metà del 1592. Tuttavia, secondo documenti emersi nel 2010 dall’Archivio di Stato di Roma (in particolare la testimonianza del barbiere Pietropaolo Pellegrino), l’artista non sarebbe giunto a Roma prima del 1596, anno in cui è documentato presso la bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli.Il biografo Giovanni Pietro Bellori (1585-1655), il giovane pittore, che era «d’ingegno torbido, e contentioso», sarebbe fuggito da Milano per altre ragioni, definite vagamente «discordie», e sarebbe quindi giunto «in Venetia ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione, che se lo propose per iscorta nell’imitatione».
Secondo Giovanni Pietro Bellori, il pittore andò a Venezia col maestro Peterzano per un soggiorno di breve durata. Bellori è comunque l’unico biografo a menzionare un soggiorno di Merisi a Venezia e tale notizia è fortemente dibattuta, giacché una sua presenza in quella città non è stata mai confermata da documenti d’archivio. Tuttavia, nell’ipotesi in cui l’informazione di Bellori sia attendibile e che Caravaggio sia effettivamente andato a Venezia, i legami stilistici con la grande scuola veneta di Giorgione, Tiziano e Tintoretto sarebbero facilmente spiegabili. Occorre comunque precisare che lo stile di Caravaggio avrebbe potuto risentire degli influssi veneti anche senza un viaggio nella città lagunare, poiché in quegli anni il dominio della Serenissima arrivava fino a Bergamo, con inevitabili ripercussioni anche sul piano artistico.
Secondo lo studioso Longhi, per lo sviluppo del futuro stile del pittore, sarebbe stata di capitale importanza la riflessione giovanile su alcuni maestri lombardi, soprattutto di area bresciana, quali Foppa, Bergognone, Savoldo, Moretto e Romanino, che Longhi definisce pre-caravaggeschi. A questa scuola si dovrebbero, infatti, l’avvio della rivoluzione luministica e la caratterizzazione naturalistica (contrapposta a certa aulicità rinascimentale) dei soggetti dipinti, elementi centrali della pittura di Caravaggio.
I successi a Roma (1594-1606)

La sua presenza a Roma nel periodo dal 1592 al 1593 non è sostenuta da fonti storiche certe, tuttavia sappiamo che nel 1594 è sicuramente ospite di monsignor Pandolfo Pucci da Recanati, da lui soprannominato monsignor Insalata, dall’unico alimento di vitto che gli forniva. Ha inoltre rapporti artistici, più o meno fugaci, con degli altri pittori locali. Dapprima presso il siciliano Lorenzo Carli, autore di opere destinate alle fasce più modeste del mercato, poi ha un breve sodalizio con Antiveduto Gramatica e, infine, frequenta per alcuni mesi la bottega di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino. Successivamente, per una malattia, viene ricoverato all’ospedale della Consolazione e, a causa di questo evento, interrompe il rapporto con il Cesari. Durante queste esperienze probabilmente Caravaggio viene impiegato come esecutore di nature morte e di parti decorative di opere più complesse, ma, in merito, non si ha nessuna testimonianza certa. Un’ipotesi, priva in ogni caso di riscontro documentale, è che Caravaggio possa aver realizzato i festoni decorativi della cappella Olgiati, nella basilica di Santa Prassede a Roma, cappella affrescata dal cavalier d’Arpino.
L’amicizia con il cardinal Del Monte

Grazie a Prospero Orsi (meglio noto come Prosperino delle Grottesche), pittore con il quale strinse una forte amicizia, Merisi nel 1597 conobbe il cardinal Francesco Maria del Monte (1549-1627), grandissimo uomo di cultura e appassionato d’arte che, incantato dalla sua pittura, acquistò alcuni dei suoi quadri; il giovane lombardo entrò quindi al suo servizio, rimanendovi per circa tre anni. Del Monte, secondo Bellori: «ridusse in buono stato Michele e lo sollevò dandogli luogo onorato in casa fra i gentiluomini».
La fama dell’artista cominciò a salire all’interno dei più importanti salotti dell’alta nobiltà romana. L’ambiente fu scosso dalla sua rivoluzionaria pittura, che si pose immediatamente al centro di forti discussioni e accese polemiche. Grazie alle commissioni del suo influente e illuminato prelato, Caravaggio mutò il suo stile, abbandonando le tele di piccole dimensioni e i singoli ritratti e cominciando a dedicarsi alla realizzazione di opere complesse, con gruppi di più personaggi descritti in un episodio specifico. Uno dei primi lavori di questo periodo è il Riposo durante la fuga in Egitto.
Nel giro di pochi anni la sua fama crebbe in maniera esponenziale, Caravaggio divenne un mito vivente per un’intera generazione di pittori che ne esaltavano lo stile e le tematiche.
Le opere romane dal 1599 in poi

Nel 1599 Caravaggio, grazie all’aiuto del cardinale Francesco Maria del Monte, ricevette la prima commissione pubblica per tre grandi tele da collocare all’interno della cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. I dipinti che Caravaggio doveva realizzare riguardavano degli episodi tratti dalla vita di San Matteo: la Vocazione e il Martirio.

In meno di un anno il pittore concluse le due opere che gli aprirono il successo pubblico, così che ebbe immediatamente altri importanti incarichi. Dapprima da parte del commerciante Fabio Nuti, per un quadro che è stato identificato nella Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Palermo, a lungo ritenuta dipinta in Sicilia nel 1609. Quindi, per la basilica di Santa Maria del Popolo. Per ordine del monsignor Tiberio Cerasi, che aveva acquistato una cappella in questa chiesa, gli vennero commissionati due dipinti: la Crocefissione di san Pietro e la Conversione di san Paolo. Contemporaneamente gli fu chiesta la realizzazione di una terza tela per la chiesa di San Luigi dei Francesi: San Matteo e l’angelo. Il pittore, nonostante conoscesse bene il gusto estetico dei suoi committenti, scelse dei soggetti popolari, che esprimessero in una dimensione reale e drammatica lo svolgersi degli eventi, rappresentando così i valori spirituali della corrente pauperista all’interno della chiesa cattolica.

La prima versione del San Matteo e l’angelo, distrutta in Germania durante la seconda guerra mondiale, fu rifiutata, almeno a detta del pittore e biografo Giovanni Baglione. Questa notizia, ritenuta attendibile fino a tutto il XX secolo, è stata smentita da Luigi Spezzaferro nel 2000. L’insigne studioso ha dimostrato che la prima versione del San Matteo e l’angelo non era altro che una pala d’altare provvisoria, da collocare temporaneamente nella Cappella in attesa che vi terminassero i lavori. La tela provvisoria non solo dava la possibilità ai religiosi di officiare la messa in un ambiente più decoroso, ma offriva a Caravaggio la possibilità di mettere in mostra le sue capacità, con la speranza di ricevere – come poi avvenne – la commissione delle tele, oggi note come il Ciclo di San Matteo. Quando a Caravaggio venne affidata la decorazione definitiva della Cappella Contarelli, la prima versione del San Matteo e l’angelo venne rimpiazzata dall’attuale tuttora in loco. Nel caso del San Matteo e l’angelo, dunque, non si trattò di un rifiuto ma di una sostituzione già prevista. L’informazione fornita da Giovanni Baglione non è quindi altro che una “malignità” da attribuire alla ben nota rivalità esistente tra Merisi e lo stesso Baglione, per la quale si rimanda alla bibliografia in nota. L’episodio del presunto rifiuto del San Matteo e l’angelo, narrato anche da Bellori, coinvolge anche un altro importante protettore di Caravaggio, il marchese Vincenzo Giustiniani (1564-1637). Queste le parole di Bellori:
« Qui avvenne cosa, che pose in grandissimo disturbo, e quasi fece disperare Caravaggio in riguardo della riputazione; poiché avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo sù l’altare, fu tolto via dai Preti, con dire che quella figura non aveva decoro, né aspetto di santo, stando à sedere con le gambe incavalcate, e co’ piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in chiesa, quando il Marchese Vincenzo Giustiniani si mosse à favorirlo, e liberollo da questa pena; poiché interpostosi con quei Sacerdoti, si prese per sé il quadro, e glie ne fece fare un altro diverso, che è quello che si vede ora sul’altare»

Il marchese Giustiniani era un ricco banchiere genovese nell’orbita della corte pontificia (oltre che vicino di casa del cardinal Del Monte, visto che aveva sede in palazzo Giustiniani a Roma con il fratello cardinal Benedetto Giustiniani) e fu protettore di Caravaggio per molti anni; collezionò moltissime delle sue opere e contribuì moltissimo alla formazione culturale del pittore. In più di un’occasione, grazie alle sue ramificate influenze, riuscì a salvare l’artista dalle gravose questioni legali nelle quali era spesso implicato per colpa della sua indole aggressiva.

Un’altra opera comunemente ed erroneamente ritenuta rifiutata è la prima versione della Conversione di San Paolo, dipinta su legno di cipresso per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. Come dimostrato da Luigi Spezzaferro, la pala non fu rifiutata ma sostituita con l’attuale in seguito a nuovi accordi intervenuti tra l’artista e gli eredi del committente Tiberio Cerasi.

Nel caso invece della Morte della Vergine, commissionata per la chiesa di Santa Maria della Scala a Roma, si trattò senza ombra di dubbio di un rifiuto. La figura della Vergine, rappresentata con il ventre gonfio e con le caviglie e i piedi in vista, fu ritenuta indecente dai Carmelitani Scalzi che di conseguenza rifiutarono il dipinto. Oltre alla posa indecorosa, Baglione e Bellori scrivono che la Vergine era stata raffigurata addirittura come “morta gonfia”. Scrive Spezzaferro:
« […] per chi è romano e in modi più o meno simili parla ancora la lingua in cui scriveva il Baglione, [“morta gonfia”] significa semplicemente che la donna ritratta come la Vergine era un’umanissima donna incinta – o, più chiaramente, gravida – che era morta di parto. Con buona pace dei tanti esegeti che su questo quadro si sono esercitati, forse si possono ora comprendere meglio le sacrosante ragioni [all’origine del rifiuto] dei Carmelitani scalzi […] »

Dunque, piuttosto che una morte per annegamento, il ventre gonfio suggeriva una gravidanza che, ovviamente, rendeva questa raffigurazione della Vergine ancora più scandalosa. L’opera di Caravaggio fu quindi rimossa e sostituita da un dipinto eseguito da Carlo Saraceni (1579-1620), raffigurante lo stesso soggetto. Nonostante il rifiuto dei Carmelitani Scalzi, la tela di Merisi fu immediatamente notata (e apprezzata) da Pieter Paul Rubens (1577-1640), celebre pittore fiammingo che all’epoca si trovava in Italia, al servizio di Vincenzo I Gonzaga (1562-1612) in qualità di pittore di corte. Rubens, che aveva anche l’incarico di arricchire la collezione del Duca di Mantova, suggerì a Vincenzo I di acquistare la Morte della Vergine per la considerevole cifra di 300 scudi. Il dipinto, che fu acquistato da Rubens tra il febbraio e l’aprile del 1607, entrò così a far parte della ricchissima quadreria dei Gonzaga. In seguito ai dissesti finanziari del casato dei Gonzaga, il duca Vincenzo II (quartogenito di Vincenzo I ed erede del titolo ducale a causa della morte degli altri fratelli) dovette svendere l’eccezionale collezione di famiglia. Parte di essa fu acquistata da Carlo I d’Inghilterra e fu così che la Morte della Vergine di Caravaggio lasciò l’Italia. In seguito alla morte per decapitazione di Carlo I, i dipinti della collezione Gonzaga furono acquistati dal finanziere e collezionista Everard Jabach e successivamente da Luigi XIV. Il dipinto di Caravaggio arrivò così a Parigi, dove si trova tuttora (Musée du Louvre, Galerie des Italiens).
I guai con la legge

Durante il soggiorno presso palazzo Madama, dimora del cardinal Del Monte, il 28 novembre del 1600 Merisi malmenò e percosse con un bastone Girolamo Stampa da Montepulciano, un nobile ospite del prelato: ne seguì una denuncia. In seguito gli episodi di risse, violenze e schiamazzi andarono via via aumentando; spesso il pittore venne arrestato e condotto presso le carceri di Tor di Nona.

Non sarebbe comunque stato il primo guaio con la legge per il turbolento artista. Giovanni Pietro Bellori (uno dei suoi primi biografi) sostiene che, intorno al 1590-1592, Caravaggio, già distintosi per risse tra bande di giovinastri, avrebbe commesso un omicidio a causa del quale era fuggito da Milano prima per Venezia (dove studiò la pittura locale, in particolar modo Giorgione) e poi per Roma. Il suo trasferimento nella città papale non sarebbe stato, dunque, una meta prefissata, ma la conseguenza di una fuga.

Nel 1602 dipinge la Cattura di Cristo e Amor vincit omnia. Nel 1603 fu processato per la diffamazione di un altro pittore, Giovanni Baglione, che querelò sia Caravaggio sia i suoi seguaci Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, colpevoli di aver scritto rime offensive nei suoi confronti. Grazie all’intervento dell’ambasciatore francese, Merisi, condannato al processo, venne liberato e trasferito agli arresti domiciliari, seppur per poco (in precedenza, aveva scontato già un mese di carcere a Tor di Nona).

Tra il maggio e l’ottobre del 1604 il pittore fu arrestato varie volte per possesso d’armi abusivo e ingiurie alle guardie cittadine; inoltre, fu querelato da un garzone d’osteria per avergli tirato in faccia un piatto di carciofi.

Nel 1605 fu costretto a scappare a Genova per circa tre settimane, dopo aver ferito gravemente un notaio, Mariano Pasqualone da Accumuli, a causa di una donna: Lena, l’amante di Caravaggio. L’intervento dei protettori dell’artista riuscì a insabbiare l’accaduto anche se, al ritorno a Roma, il pittore venne querelato da Prudenzia Bruni, sua padrona di casa, per non aver pagato l’affitto; per ripicca, Merisi prese nottetempo a sassate la sua finestra, finendo nuovamente querelato. Nel novembre dello stesso anno, il pittore risulta degente per una ferita, che dice di essersi procurato da solo, cadendo sulla propria spada.

Il fatto più grave però si svolse a Campo Marzio, la sera del 28 maggio 1606: a causa di una discussione causata da un fallo nel gioco della pallacorda (una sorta di tennis) il pittore venne ferito e, a sua volta, ferì mortalmente il rivale, Ranuccio Tomassoni da Terni, con il quale aveva avuto già in precedenza delle discussioni spesso sfociate in risse. Anche questa volta c’era di mezzo una donna, Fillide Melandroni, le cui grazie erano contese da entrambi. Probabilmente dietro l’assassinio di Ranuccio c’erano anche questioni economiche, forse qualche debito di gioco non pagato dal pittore o addirittura politiche: la famiglia Tomassoni infatti era notoriamente filo-spagnola, mentre Michelangelo Merisi era un protetto dell’ambasciatore di Francia.

Il verdetto del processo per il delitto di Campo Marzio fu severissimo: Caravaggio venne condannato alla decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per la strada. In seguito alla condanna, nei dipinti dell’artista lombardo cominciarono ossessivamente a comparire personaggi giustiziati con la testa mozzata, dove il suo macabro autoritratto prendeva spesso il posto del condannato. Degli autoritratti di come fosse effettivamente il reale volto del pittore, forse uno dei più verosimili resta quello di un fuggitivo nella sua scena del Martirio di san Matteo. Tuttavia, il ritratto più noto del Merisi rimane quello a opera di Ottavio Leoni, che lo conobbe personalmente ma lo eseguì almeno 11 anni dopo la sua morte. Lo stesso Leoni ritrarrà anche Galileo Galilei, praticamente contemporaneo del Merisi, nel 1624; alcuni hanno riconosciuto, in quest’ultimo, una grande somiglianza con il Pilato nella celebre tela Ecce Homo di Caravaggio del 1601.
La fuga da Roma

La permanenza in città non era più possibile: ad aiutare Caravaggio a fuggire da Roma fu dunque il principe Filippo I Colonna che gli offrì asilo all’interno di uno dei suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo e Paliano. Il nobile romano mise in atto una serie di depistaggi, grazie anche agli altri componenti della sua famiglia che testimoniarono la presenza del pittore in altre città italiane, facendo così perdere le tracce del famoso artista.

Per i Colonna Caravaggio eseguì in quel periodo diversi dipinti, su tutti la Cena in Emmaus, nella scarna versione che oggi è a Brera.
Gli ultimi anni (1606-1610)
Il primo periodo napoletano

Alla fine del 1606, Caravaggio giunse a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove rimase per circa un anno.
La fama del pittore era ben nota a tutti nella città. I Colonna lo raccomandarono a un ramo collaterale della famiglia residente a Napoli: i Carafa-Colonna. Qui il Merisi visse un periodo felice e prolifico per quanto riguarda le commissioni. Furono infatti eseguiti: la Giuditta che decapita Oloferne (1607), scomparsa e di cui forse esiste una copia coeva facente parte delle collezioni del banco di Napoli; la Sacra famiglia con san Giovanni Battista (1607), appartenente alla collezione privata Clara-Otello Silva a Caracas; una prima versione della Flagellazione di Cristo (1607), conservata presso il musée des beaux arts di Rouen; la Salomè con la testa del Battista (1607), alla National Gallery di Londra; la prima versione di Davide con la testa di Golia (1607), al Kunsthistorisches Museum di Vienna; la Crocifissione di sant’Andrea (1607), presso il Cleveland Museum of Art e infine, la più importante, che si ipotizza sia stata commissionata dai Carafa-Colonna, forse per collocarla nella cappella di famiglia nella chiesa di San Domenico Maggiore, la Madonna del Rosario (1606-1607). Poco dopo la sua esecuzione, il dipinto fu venduto a dei mercanti e portato nelle Fiandre prima e a Vienna poi, dove si trova tuttora.

Dei molti dipinti eseguiti durante il primo periodo napoletano, solo due sono ancora nella città. Il primo è il suggestivo Sette opere di Misericordia (1606-1607), uno dei lavori più importanti del Caravaggio. La tela, che si rivelerà cardine per la pittura in Italia Meridionale e per la pittura italiana in generale, presenta una composizione più drammatica e concitata rispetto alle pitture romane, rinunciando a un fulcro centrale dell’azione. Questo aspetto sarà di grande stimolo per la pittura barocca partenopea successiva e il passaggio del Merisi in città, infatti, darà luogo alla nascita di molti esponenti caravaggeschi tra i pittori locali.

L’altro dipinto rimasto a Napoli fu quello eseguito tra il 1607 e il 1608, direttamente per la chiesa di San Domenico Maggiore, poi spostato al museo di Capodimonte, ovvero una seconda versione della Flagellazione di Cristo.
Il soggiorno a Malta e in Sicilia

Nel 1607 Michelangelo Merisi parte per Malta, sempre per intercessione dei Colonna, e qui entra in contatto con il gran maestro dell’ordine dei cavalieri di san Giovanni, Alof de Wignacourt, a cui il pittore fece anche un ritratto. Il suo obiettivo era diventare cavaliere per ottenere l’immunità, in quanto su di lui pendeva ancora la condanna alla decapitazione. In questo contesto il Caravaggio firma un documento che metterà in discussione il suo reale luogo di nascita. Infatti il pittore dichiara che la sua città natale è proprio Caravaggio, in provincia di Bergamo: “Carraca oppido vulgo de Caravagio in Longobardis natus”. A rimettere in discussione il suo luogo d’origine vi è poi un’ulteriore attestazione presentata recentemente, proveniente dalla scoperta di un documento nuovo; in esso si legge la dichiarazione resa a Roma da un garzone mediolanensis, Pietro Paolo Pellegrino, nel corso di un interrogatorio: «questo pittore Michelangelo… al parlare tengo sia milanese», ma poi specifica «mettete lombardo, per che lui parla alla lombarda». Pellegrino non riconobbe nella cadenza del pittore l’accento che gli era familiare, essendo lui stesso milanese per nascita.

Intanto l’attività di pittore del Merisi prosegue, dipingendo nel 1608 la Decollazione di san Giovanni Battista, il suo quadro più grande per dimensioni, tuttora conservato nella cattedrale di La Valletta. Nella stessa chiesa si trova soltanto un’altra opera del pittore, il San Girolamo scrivente.
Dopo un anno di noviziato, il 14 luglio 1608 Caravaggio fu investito della carica di cavaliere di grazia, di rango inferiore rispetto ai cavalieri di giustizia di origine aristocratica. Anche qui ebbe dei problemi: fu arrestato per un duro litigio con un cavaliere del rango superiore e perché si venne a sapere che su di lui pendeva la condanna a morte. Venne rinchiuso nel carcere di Sant’Angelo a La Valletta, il 6 ottobre: riuscì incredibilmente a evadere e a rifugiarsi in Sicilia a Siracusa. Il 6 dicembre i cavalieri espulsero Caravaggio dall’ordine con disonore: «Come membro fetido e putrido».

A Siracusa, Caravaggio fu ospite di Mario Minniti, suo amico di vecchia data, conosciuto durante gli ultimi anni romani. Nella città siciliana si interessò molto all’archeologia, studiando i reperti ellenistici e romani ivi presenti: durante una visita assieme allo storico Vincenzo Mirabella coniò il nome “orecchio di Dionigi” per descrivere la Grotta delle Latomie. Durante questo soggiorno dipinse, per la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro, una pala d’altare raffigurante il Seppellimento di santa Lucia (la patrona della città siciliana), la cui ambientazione sembra proprio quella delle vicine grotte da lui tanto ammirate.

A Messina dipinse la Resurrezione di Lazzaro, tetra incompiuta e cimiteriale rappresentazione, la cui parte centrale è occupata dal corpo di Lazzaro spasmodicamente teso nel gesto del braccio verso la luce, e l’Adorazione dei pastori.

Giovanni Pietro Bellori ricorda la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi eseguita a Palermo per l’oratorio di san Lorenzo, ma recentemente ha preso maggiore consistenza l’ipotesi, suffragata anche da recenti ritrovamenti documentari, secondo cui essa fu dipinta nel 1600 a Roma, per il commerciante Fabio Nuti, e da lì spedita a Palermo. L’opera fu trafugata nel 1969 e, secondo le indagini delle autorità inquirenti, sarebbe stata poi distrutta.
Il secondo periodo napoletano

Alla fine dell’estate del 1609 Caravaggio tornò a Napoli. Qui, probabilmente in ottobre, affrontato con violenza da alcuni uomini al soldo del suo rivale maltese, all’uscita della Locanda del Cerriglio (nei pressi di via Monteoliveto), rimase sfigurato e la notizia della sua morte cominciò a circolare prematura.

La fase creativa del suo secondo periodo napoletano è ricostruita dagli storici con molte congetture: dipinse sicuramente il San Giovanni Battista disteso (1610) appartenente a una collezione privata a Monaco di Baviera, la Negazione di san Pietro, il San Giovanni Battista e il Davide con la testa di Golia, quest’ultimo molto importante dal punto di vista storiografico in quanto raffigurante un macabro autoritratto del Caravaggio nella figura del Golia con la testa mozzata, sorte questa dalla quale il Merisi tentava da anni di fuggire.
Ancora del periodo di Napoli, sono da attribuire i due diversi quadri con medesimo soggetto: la Salomè con la testa del Battista, che il pittore avrebbe dovuto recapitare ai Cavalieri dell’Ordine, e la Salomè con la testa del Battista a Madrid, cominciata questa tela durante il primo periodo napoletano. Poi vi furono tre tele per la chiesa di Sant’Anna dei Lombardi di Napoli, il San Francesco che riceve le Stimmate, il San Francesco in meditazione e una Resurrezione (quest’ultima nota oggi attraverso una copia di Louis Finson ad Aix en Provence), tutte però perdute durante il terremoto del 1805 che causò il crollo di una parte dell’edificio religioso.

Infine, dipinse il Martirio di sant’Orsola (1610) per Marcantonio Doria, oggi conservato nel palazzo Zevallos di Napoli. Questo è considerato di fatto l’ultimo dipinto di Caravaggio arrivato ai giorni nostri.
Ultimi giorni di vita

Nel frattempo, da Roma gli fu inviata la notizia che papa Paolo V stava preparando una revoca del suo bando di condanna a morte. Da Napoli quindi, dove abitava presso la marchesa Costanza Colonna nel palazzo Cellammare, si mise in viaggio nel luglio 1610 con una feluca-traghetto che settimanalmente faceva il tragitto Napoli-Porto Ercole e ritorno, ma diretto segretamente allo scalo portuale di Palo di Ladispoli, sotto il feudo degli Orsini, in territorio papale, luogo distante circa 40 km da Roma. In quel feudo avrebbe atteso in tutta sicurezza il condono papale prima di ritornare, da uomo libero, nella città eterna.

L’ipotesi più certa racconterebbe che l’arrivo a Palo di Ladispoli, disatteso dalla sorveglianza costiera, ne causò il fermo per accertamenti. Tuttavia la feluca, non potendo aspettare, sbarcò il Merisi e proseguì più a nord, per Porto Ercole, dove era effettivamente diretta, portandosi dietro il bagaglio dell’artista. Quelle casse però, contenevano anche il prezzo concordato dal Merisi col cardinal Scipione Borghese per la sua definitiva libertà, consistente, in special modo, in alcune sue tele, tra cui un prezioso quadro del Battista. Il bagaglio quindi era obbligatoriamente da recuperare, poiché letteralmente vitale; la versione ufficiale affermerebbe che gli Orsini gli avrebbero offerto un’imbarcazione per raggiungere Porto Ercole, e recuperare quindi il prezioso carico; l’artista vi giunse, ma tuttavia, non è qui ben chiaro se la precedente feluca-traghetto stesse già ritornando a Napoli, coi suoi bagagli a bordo. Provato, e malato di febbre alta, probabilmente a causa di un’infezione intestinale trascurata, restò quindi a Porto Ercole, curato inutilmente da una confraternita locale, che il 18 luglio 1610 ne certificò la morte, avvenuta nel loro sanatorio. Si può qui ipotizzare che il giorno successivo, l’artista fu inoltre seppellito nella fossa comune del cimitero di San Sebastiano, ricavata nella spiaggia e riservata agli stranieri, e che oggi è il retroporto urbanizzato di Porto Ercole, dove nel 2002 è stato collocato il monumento. Di questa ipotesi dei fatti, risultata tuttavia la più verosimile, non vi è nemmeno la certezza storica se il condono papale fu effettivamente spedito qualche giorno dopo a Napoli, alla Marchesa Colonna.

Nell’occasione delle celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte, viene data la notizia da un professore dell’Università di Napoli, Vincenzo Pacelli, esperto del Merisi, a conclusione di uno studio, coadiuvato da documenti dell’archivio di Stato e dell’Archivio Vaticano, che sposta la sua morte nella laziale riva di Palo di Ladispoli. Secondo Pacelli, il Caravaggio fu assassinato da degli emissari dei cavalieri di Malta, con il tacito assenso della Curia Romana.
Il ritrovamento dei resti

Caravaggio ebbe molte storie d’amore, ma nessun matrimonio o presunto figlio documentato. Il 16 luglio 2010, a 400 anni dalla morte, e dopo oltre un anno di ricerche storiografiche e analisi scheletrica, nonché confronti col DNA dei discendenti dei fratelli, gli unici parenti stretti del pittore, di cognome Merisio di Caravaggio un’équipe di scienziati italiani confermò che le ossa coperte di piombo e mercurio (usati in grande abbondanza dai pittori del ‘600 per preparare i colori) trovate in quella che fu la fossa comune del cimitero di Porto Ercole, sono all’85% quelle del grande artista.
Le ricerche furono coordinate da un pool di istituti coordinati dall’Università di Bologna, con il supporto degli atenei dell’Aquila e del Salento e del centro ricerche ambientali di Ravenna. Al risultato si è arrivati mettendo insieme gli esiti di indagini storiografiche e di biologia scheletrica, nonché dell’uso di tecnologie per l’accertamento dei metalli pesanti nelle ossa, di analisi dei sedimenti terrosi, della datazione con il metodo del carbonio-14 e, per finire, del DNA.
Il 3 luglio 2010, dopo una settimana di permanenza nella città di Caravaggio, i resti ossei furono riportati via mare a Porto Ercole e messi in mostra a Forte Stella, una fortificazione del paese.
Il 19 luglio 2014 a Porto Ercole è stata terminata la Piazza del Caravaggio, in onore dell’omonimo pittore che nel 1610, ormai braccato dai soldati e in fuga da tempo, vi trovò la morte. La piazza è di interesse culturale; le ossa di Michelangelo Merisi sono rinchiuse in un ossario posto su un piccolo altare. L’analisi del DNA ha stabilito con una minima possibilità d’errore che i resti sono effettivamente del pittore.

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